Sovranismi (4): che cos’è il “populismo di centro”

Errejóndi Rino Genovese

A volerlo interpretare con gli strumenti concettuali di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (che devono molto a Carl Schmitt), il fenomeno Grillo-Casaleggio è uno strano oggetto. Sentite che cosa ne dice Iñigo Errejón, esponente di Podemos, che, dopo avere distinto in un’intervista tra un “populismo progressista” e un “populismo reazionario”, alla domanda “sotto quale categoria potrebbero essere collocati i Cinque Stelle?”, così risponde: “Non lo so. C’è una grande ambivalenza in questo movimento. Da una parte, c’è un’aspirazione alla ridistribuzione della ricchezza, al reddito universale, a un migliore controllo delle istituzioni politiche, ma dall’altra c’è anche un populismo punitivo, o razzista, in particolare sull’immigrazione” (da “Le Monde” del 23 marzo 2018).

Errejón (che tra parentesi, all’interno di Podemos, avrebbe voluto un’alleanza di governo con il Psoe sul modello di un’unità a sinistra di tipo portoghese) ha trentacinque anni ed è spagnolo: non è quindi tenuto a conoscere la storia italiana che soltanto può spiegare un fenomeno come quello grillino. Al tempo stesso, proprio una riflessione su questa storia contribuisce a mostrare la debolezza del discorso teorico intorno a un “populismo di sinistra” (o progressista) così come sviluppato da Laclau e Mouffe, e ripreso dallo stesso Errejón.

Anzitutto, che cosa manca a questa teorizzazione? Il riconoscimento del fatto che momento centrale del populismo in generale è la confusione, fino alla vera e propria soppressione, della distinzione destra/sinistra. Non mi riferisco tanto al contenuto di questa distinzione, che può essere anche mutevole ed evanescente (nel senso che una “sinistra” può fare una politica di “destra”, stando alle accuse che spesso provengono dall’opposizione a una “sinistra di governo”), quanto proprio al suo valore formale: destra e sinistra sono infatti degli indicatori sistemici che, di volta in volta, dentro una situazione data, permettono di distinguere tra alleati e avversari, o tra potenziali alleati e potenziali avversari, consentendo così alla politica democratica di girare intorno all’asse del compromesso o dell’antagonismo tra forze tra loro eterogenee per gli interessi e le concezioni che esprimono.

L’asse della “costruzione del nemico” – e rispettivamente della “costruzione di un popolo” –, di un noi contro un loro, è invece un aspetto della politica virtualmente totalitaria. Dico “virtualmente”, e questo avverbio va preso sul serio, nel senso che una politica che si rifiuta di distinguere tra opzioni di destra e di sinistra (o conservatrici e progressiste) può facilmente scivolare, anche suo malgrado, in una prospettiva foriera di una completa identificazione tra una “nazione” (o un “popolo”, o comunque si voglia chiamare questo aggregato composito) e un’unica formazione politica. Il che è effettivamente accaduto nell’Argentina di Perón, che non a caso è il terreno su cui nasce la posizione teorica di Laclau e Mouffe. Il fatto che poi si debba ancora distinguere come fanno i teorici del “populismo di sinistra”, per restare comunque ancorati alla politica democratica, tra un populismo progressista e uno reazionario, è l’indice che si viene riacciuffati per così dire alle spalle dalla distinzione, con scarsa coerenza teorica – e peraltro con ben drammatica realtà storica, se si pensa a quanto è accaduto tra gli anni sessanta e settanta in Argentina con il sanguinoso conflitto tra la destra e la sinistra peronista.

Ora, l’Italia è collocata, per la sua stessa storia recente e meno recente, in una posizione particolarmente adatta a comprendere che cosa sia un “populismo di centro”, come in fin dei conti potrebbe essere catalogato quello grillino. Quella del “centro” è infatti un’arte di governo molto italiana che consiste nel dare, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte: un’arte dell’immobilismo politico o dei piccolissimi passi, di cui è stata maestra per lunghi decenni la Democrazia cristiana con il suo complesso sistema delle correnti interne. Il centro è per definizione un luogo spurio tra la destra e la sinistra. Da ultimo, Macron in Francia ha costruito le sue fortune smontando e rimontando, in una formazione di centro liberale, pezzi di ceto politico di destra e di sinistra. Ma l’Italia ha un primato in questo senso. Perfino il fascismo di governo può essere considerato centrista rispetto al nazismo, per la circostanza che Mussolini, fin dall’inizio, perseguì un compromesso con la monarchia, e in certi momenti con la Chiesa cattolica, che, sebbene sempre sull’orlo di un’implosione, durò fino al 1943.

Già nel periodo della Resistenza, inoltre, l’Italia diede prova della sua capacità d’invenzione politica con il fenomeno dell’Uomo qualunque. Il suo creatore, Guglielmo Giannini (che veniva dal mondo del teatro e della satira proprio come Grillo, a riprova del fatto che nell’umorismo c’è quasi sempre quello che Adorno chiamava l’ “errore di Giovenale”: cioè la connivenza del comico con i valori e i costumi tradizionali), polemizzava sia contro il fascismo sia contro i partiti antifascisti, e anzi man mano sempre più contro di questi – l’introduzione del termine “partitocrazia” è sua –, dando vita così al primo caso di fascismo non fascista in senso tecnico, ben radicato nel gioco parlamentare (l’Uomo qualunque fu presente nell’assemblea costituente), e sostanzialmente di centro, se si pensa che il rapido destino di questa formazione politica fu quello di essere riassorbito dalla Democrazia cristiana.

Un altro esempio di centrismo a sfondo populistico (o neo-populistico) è proprio quello offerto dal partito-azienda di Berlusconi. Ciò che si è visto – all’atto pratico, cioè al netto della demagogia e delle promesse roboanti – del suo modo di governare è stato quello che mi è capitato di definire un immobilismo agitato nell’incapacità di realizzare, anche per ragioni puramente elettoralistiche, il programma liberista cui pure s’ispirava (in ciò Berlusconi è stato surclassato dal suo allievo Renzi).

In fondo il fenomeno grillino, il cui successo nasce da una complementarità nella doppia delusione provocata dal berlusconismo e dal Pd, tende a collocarsi proprio in una posizione centrista. Non c’è nulla, del resto, nel profilo fascistoide di un personaggio come Di Maio che possa essere considerato di sinistra, nemmeno a prendere per buona la fallace espressione “populismo di sinistra”. La stessa proposta di un reddito di cittadinanza (che comunque non vedrà la luce, nell’ipotesi di una maggioranza parlamentare con la Lega) può essere declinata in modi molto differenti. Può essere semplicemente una forma di mancia, di assistenzialismo nei confronti dei più poveri, mentre si smantellano lo Stato sociale, la sanità pubblica e così via – ed è la versione neoliberista –, o può essere l’idea di uno svincolamento del reddito dalla prestazione di lavoro, nel senso di “a ciascuno secondo i suoi bisogni”: il che implicherebbe un aumento dell’imposizione fiscale sui più ricchi e un salto in senso socialista. E magari nulla di tutto questo: anche soltanto una trovata che, avendo consentito di prendere voti soprattutto al sud, può restare lettera morta.

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