Sardegna, elezioni senza rappresentanza

Sardegnadi Mario Monforte

In Sardegna «il 40.4% al centrosinistra, il 28.9% al M5S, il 27.8% al centrodestra». Cosí i media. Aggiunta: al voto il 15.5% degli aventi diritto, ossia meno di 230.000 sui poco meno di 1.480.000. Consueti commenti frettolosi sull’astensione: campagne elettorali non ben riuscite, candidati non abbastanza indovinati, ecc., per passare a “vincitori” e “vinti”, con il centrosinistra che gongola sulla sua (presunta) “rimonta”, con gli altri che garantiscono «è solo un incidente di percorso», con il M5S che critica Salvini per aver ri-presentato la Lega con Berlusconi & Co., ecc. Nel frammezzo si (ri-)dice – un’ennesima volta – della “disaffezione al voto”, dell’“astensione di protesta”, di “crisi della democrazia rappresentativa”. E poi si va avanti, come sempre.

Ma di quali “vittorie” e “sconfitte” si parla? I “vincitori” (virgolette d’obbligo) hanno preso circa 92.000 voti, gli altri rispettivamente 66.000 e 63.000 circa. E questo – ripetiamolo – su circa 1.480.000 elettori. Che rappresentatività hanno vincitori e vinti?

Quando i sardi si sono aspettati di poter davvero incidere, come il 4 marzo del 2018, si è avuta un’affluenza significativa (67.2%). Quest’ultimo non-voto in Sardegna attesta che, in generale, sono andati a votare solo quelli proprio “legati” alle diverse forze politiche; in particolare (dato il cosiddetto “successo”), quelli “interessati” al/dal Pd-centrosinistra; nel complesso, i seguiti di aficionados delle tre forze. La massa della popolazione si è situata nell’indifferenza (in un mix fra ira, rassegnazione, passività) per le inconcludenze dei gestori (politici) locali, regionali, evidentemente nella sfiducia che, rispetto alla pessima situazione dell’isola, qualche cambiamento venga dal suo interno, dal suo “personale politico”, mentre le stesse forze di governo (governo che pur anche il voto sardo del 4 marzo ha concorso a far sorgere) sono state penalizzate dal ritardo dei primi provvedimenti e dalla carenza di altre misure per la Sardegna. I sardi hanno avuto ragione o torto? È presunzione pronunciarsi: la domanda va rimessa alla loro esperienza. Ma non incide anche la spoliticizzazione? Certo, ma non è specifica dei sardi, bensí generale: è la professionalizzazione dell’attività politica che comporta la spoliticizzazione di massa. E si dimostra che “impianto” e azione del M5S (con meetup, blog, web, ecc.) non sono sufficienti a superare tale realtà. Che, peraltro, è precisamente determinata dallo stesso sistema elettivo-rappresentativo.

E veniamo ai “nodi” della questione. Le elezioni flop sarde possono costituire un campanello di allarme per il governo (da notare che si situano in una suite di ridotta affluenza nel seguito di amministrative) rispetto alle elezioni europee: il carattere “risicato” dei provvedimenti varati (uniti a una caterva di vincoli e controlli) e una certa disillusione si possono tradurre in aumento dell’astensione, avvantaggiando cosí l’opposizione, che ha molto minori consensi, però ampie cordate di “interessi” e “interessati”, e decisi seguiti di fan.

Ma non è questo l’aspetto principale su cui si intende concentrare, qui, l’attenzione. Lo è la «democrazia rappresentativa», pendant di quanto viene denominato con il termine di «liberaldemocrazia», che ingenera la dialettica professionalizzazione-spoliticizzazione (quest’ultima, del resto, ben corroborata dai media e loro “distrazioni di massa”, dall’“insegnamento dell’ignoranza” scolastico, dalla circoscrizione delle persone a piccole cerchie di famiglia, lavoro o sua ricerca, o studi, un po’ di amici, e basta). Tale “sistema” spoliticizza per forza: i tanti (tantissimi) delegano la gestione (governo, dello Stato o delle sue articolazioni, dalle Regioni ai Comuni) ai pochi (pochissimi), agli oligoi. E questo è un principio oligarchico ed è l’attuazione dell’oligarchia («potere dei pochi»), in cui possono mutare, del tutto o in parte, i delegati alla gestione, ma sempre sono i pochi, e sempre i tanti ne sono esclusi. Quindi è mistificante dire «liberaldemocrazia», «democrazia rappresentativa», o, piú precisamente, «democrazia elettivo-rappresentativa»: va detto «oligarchia elettivo-rappresentativa». E, quando le prospettive appaiono (vero o falso che sia) di scarso rilievo, quando “non funziona” nemmeno il “meno peggio”, il voto non tanto “per” quanto “contro” qualcuno, si ingenera il massiccio non-voto. Va ribadito che la democrazia è tutt’altro: implica il coinvolgimento in prima persona e a rotazione dei cittadini, usando anche il sorteggio, la formazione anche di organi elettivi, ma collegiali – mentre nell’oligarchia si istalla perfino il principio della monocrazia: l’“uno” alla testa delle gestioni – e anch’essi a rotazione, i cui membri sono revocabili e sostituibili in ogni momento. Tuttavia, tale concezione della democrazia vera, la sola che spezzerebbe la dialettica professionalizzazione-spoliticizzazione, via via portando la massa dei cittadini a comprendere e gestire interessi comuni, e quindi a interessarsene, non pare trovare “orecchie aperte” (si va da chi scuote le spalle, a chi dice “ma la Costituzione …”, a chi sentenzia “è impossibile” e lo dimostra … affermandolo), e quindi lasciamola qui (senza però ritirarla). E concentriamoci sulla “rappresentatività”: le elezioni in Sardegna non conferiscono nessuna rappresentatività né a primi, né a secondi, né a terzi arrivati. Sono legali (secondo le leggi vigenti), ma non legittimano.

Almeno su ciò si potrebbe e dovrebbe intervenire. Le proposte sono, in fondo, semplici: per i referendum – consultivi, abrogativi, e a maggior ragione se istituiti come propositivi – è giusto abolire il quorum (modo effettivo per spingere i cittadini a pronunciarsi), ma può infine andar bene anche un quorum basso, purché lo si possa con relativa facilità superare; è invece negativa la mancanza di quorum per le elezioni (amministrative e politiche: ma, in effetti, tutte sono politiche), perché porta a esiti insensati come quelli sardi, che non garantiscono nemmeno la rappresentatività. Perciò, va proposto e imposto per legge un quorum: può andar bene quello finora applicato ai referendum, ossia il 50% + 1, ma può andar bene anche un quorum minore, tipo il 40%: però vi deve essere. E se ugualmente gli elettori non votano? Allora sappiano che resta confermata la gestione (nazionale, o regionale, o locale) uscente. Solo cosí le elezioni dell’«oligarchia elettivo-rappresentativa» possono essere, come minimo e in qualche misura, rappresentative: quindi, legali e legittime.

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