Memoria di un anno di memoria

di Luca Baiada

Se ne parla tanto, provo a vedere se funziona.

Gennaio 2018, un anno fa. Il presidente della Repubblica condanna i giuristi del fascismo e denuncia «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati» nello sterminio degli ebrei. Parole importanti, soprattutto per il riferimento ai notabilati intellettuali e ai magistrati. Il fascismo non fu solo cosa di energumeni.

Alla presa di posizione di Mattarella, nelle magistrature nessuna associazione dà risposte ufficiali. Contemporaneamente al messaggio, nella Scuola della magistratura, a Scandicci, c’è il corso La psicologia del giudicare; si parla continuamente di memoria (testimoni, false memorie eccetera), però lo sterminio non viene ricordato. In seguito, durante l’anno il sito di Magistratura democratica proporrà interventi per provare a spezzare il muro di silenzio e di ovvietà.

Marzo. A una cerimonia di apertura dell’anno giudiziario si solleva un problema che ha dell’incredibile: l’Avvocatura dello Stato italiana ha preso le difese della Germania nei processi civili sui risarcimenti da stragi e deportazioni. La cosa è criticata davanti ai rappresentanti del Foro, ai giornalisti, ai comandi militari. L’Avvocatura dello Stato non risponde. Un giornale riprende appena la questione.

Aprile, Roma. Al convegno La Germania deve pagare per stragi e deportazioni si critica il riparazionismo sui crimini nazifascisti – pochi soldi tedeschi per iniziative culturali, niente ai familiari delle vittime – compreso un suo prodotto importante, l’Atlante delle stragi, che i familiari hanno chiamato «piatto di lenticchie». L’incontro si deve anche all’ospitalità del presidente del Museo storico della Liberazione, Antonio Parisella, che tiene la schiena dritta, malgrado tutto quello che si può immaginare. Ci sono storici e giuristi, ed emergono cose che si sentono raramente, e mai negli studi finanziati da Berlino.

Ancora aprile. A Pistoia – dove nel 2017 un’iniziativa pubblica ha criticato il riparazionismo – si presenta proprio l’Atlante delle stragi: le posizioni non allineate vanno rimesse in riga. La presentazione è abbinata a un film tedesco, Il secondo trauma, su Sant’Anna di Stazzema. Il film, scarsino, spiega che la mancata giustizia è una ferita in più per le vittime; non se ne dubitava, ma presentandolo si promuove l’operazione riparazionista. La narrazione del secondo trauma serve a perpetuarlo.

Maggio, Roma. Un convegno organizzato dall’Unione delle comunità ebraiche italiane: Luci e ombre nei processi per crimini di guerra in Italia: Dal processo Kappler (1948) a quello di Cefalonia (2013). Idea ottima, esito magro. Una ventina di persone, e siamo nella città delle Fosse Ardeatine. La presenza anche di un solo parente, per metà delle vittime, avrebbe riempito la sala. Interviene Thomas Will, vice procuratore presso l’Ufficio centrale per le indagini sui crimini nazisti, a Ludwigsburg. Ci tiene a valorizzare la struttura, spiega le sue caratteristiche. Rivendica il numero imponente di documenti raccolti e indagini trattate, ma non spiega in che misura abbiano portato, provenienti da Ludwigsburg e smistate negli uffici competenti, a condanne effettivamente eseguite; in realtà, la proporzione fra crimini nazisti e condanne è desolante. E poi, Will evita assolutamente di dire che nessun tedesco è mai stato consegnato all’Italia, neppure per casi gravissimi. Colpo di scena: a un suo cenno, nel pubblico si alza una signora (abitino pastello, matinée a Bayreuth) e mette a disposizione un pacco. Sono brevi opuscoli sull’Ufficio di Ludwigsburg, Will fa sapere che tutti possono averne uno. Tutti, davvero, con questa folla? Niente domande, l’incontro è finito, la sala è pronta per un concerto. Siamo nel complesso delle Terme di Diocleziano, imperatore fra i più duri contro i cristiani (chissà come li distingueva dagli ebrei, il funzionariato imperiale). Dove furono piscine e palestre ci sono un museo, aule, giardini, quel che resta di una certosa e la basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Qui nel 1945 fu battezzato un uomo colto e intelligente, di formazione europea: il rabbino capo di Roma Israele Zolli; purtroppo in dissidio con la comunità ebraica romana, cambiò religione.

Giugno. Arriva una sentenza della Cassazione attesa da ottobre 2017: su Villa Vigoni, lussuosa proprietà dello Stato tedesco in territorio italiano, non si possono fare procedure esecutive per risarcire stragi e deportazioni, perché è un immobile destinato a funzioni sovrane o pubbliche. Infatti ci fanno convegni e concerti. Nel 2017 ha ospitato anche un’iniziativa molto speciale: Remedies against Immunity? Reconciling international and domestic law after the Italian Constitutional Court’s Sentenza 238/2014. Un incontro ad alto livello, finanziato dalla Fondazione Fritz Thyssen (cioè intitolata a un nazista), in cui si sono sentite tesi revisioniste e argomenti furbi, tutto per continuare a non pagare. La villa dove si studia per l’inadempimento, non vogliono certo lasciarla vendere all’asta dai creditori.

Ancora giugno. Paolo Pezzino diventa presidente dell’ex Insmli, oggi Istituto nazionale Ferruccio Parri. È un accademico famoso. Le sue ricerche sono state finanziate con denaro pubblico, anche tedesco, e anche per un incarico di ampia visibilità: l’Atlante delle stragi, appunto. Denaro legalmente ineccepibile, di certo fiscalmente regolare; la quantità non è dichiarata, ma calcolando dai dati disponibili, non ha fatto diventare ricchi né lui né i suoi collaboratori. Contemporaneamente alla nomina si rinnova il consiglio di amministrazione dello stesso Istituto, e quattro consiglieri su sette, la maggioranza, hanno lavorato all’Atlante. Tutti con le carte in regola, certo. Però.

Immaginare i partigiani che ragionano – durante la Resistenza, e tutti – su un’ipotesi: un giorno ci saranno istituti ufficiali, a raccontare: vittorie, disastri, eroismi famosi e anonimi, codardie di vecchi notabili e slancio leonino di bambini, atrocità tedesche e fasciste, amori e gelosie, fame e letture, canzoni e pidocchi, speranze e progetti. Magnifico! Fra gli altri, un solido istituto milanese avrà un ruolo di primo piano. Beh, un po’ d’ordine ci vuole. Poi, fra tre quarti di secolo, l’istituto di Milano si chiamerà come uno di noi, un professore piemontese, si chiama Ferruccio, nome di battaglia Maurizio. Ce lo meritiamo. Ma l’Italia non conterà mai per davvero i morti, insomma i civili e i nostri uccisi inermi; e per provare a contarli, un gruppo di storici italiani accetterà soldi tedeschi; Berlino dirà che ha fatto i conti col passato e le famiglie delle vittime non avranno nulla. Quel gruppo di storici chiederà giustizia! Il loro direttore diventerà presidente di quell’Istituto, quello col nome vero di Maurizio, e chi avrà qualcosa da dire sembrerà uno che non sa stare ai tempi, che non guarda all’Europa. Ma l’Europa sarà dei popoli liberi! L’unità di misura dell’economia sarà il paragone coi titoli tedeschi. E gli italiani non se ne accorgeranno? Le quotazioni dei titoli e l’elenco dei massacri si leggeranno su uno schermo illuminato, come al cinematografo, ma sarà a pile, largo come un pacchetto di sigarette, e sottile come quella fetta di cacio, ieri l’altro. Che hai detto?

Di nuovo giugno. Il Tribunale di Roma condanna la Germania al risarcimento per un caduto alle Ardeatine. È la prima condanna civile per il più grande massacro urbano nell’Europa occidentale, trattato anche al processo di Norimberga. Nel 2018 i tribunali emettono altre condanne, ma di solito, nei processi, l’Avvocatura dello Stato prende posizione contro le vittime.

Sempre giugno. Vicino a Monaco di Baviera, la Rai trova Wilhelm Stark, condannato all’ergastolo per massacri in Italia. È vecchio ma va ad aprire la porta, nega tutto ed è così innocuo che al giornalista rifila una pedata. Anche Mediaset si muoverà: in ottobre le Iene, sempre in Baviera, troveranno Johann Robert Riss, condannato per la strage di Fucecchio; non cammina e farfuglia a vanvera. Le Iene attualizzeranno meglio, prendendo posizione contro l’onda reazionaria in Europa e in America. Ma le trasmissioni sopravvalutano la responsabilità penale, quindi personale, e tacciono sui risarcimenti. Il debito economico è a carico dello Stato tedesco, che non invecchia, non scalcia né balbetta, non va in sedia a rotelle e non fa per niente pena.

Luglio, Roma. Susanne Wasum-Rainer lascia l’ambasciata tedesca. È stata la capofila dei tre rappresentanti ufficiali per la Germania nel processo alla Corte internazionale di giustizia, all’Aia, quando l’Italia è stata condannata per aver appena osato qualcosa in favore delle vittime e per aver permesso, in un primo momento, un’ipoteca su Villa Vigoni. Nel 2012, finito il processo, carriera fulminea: Wasum-Rainer è nominata ambasciatrice a Parigi. Poi Roma, a luglio 2015. Arriva in Italia nel vivo della fase di attuazione dell’operazione riparazionista, ed è fresca di nomina quando il Mulino pubblica, con una premessa a sua firma, il volume Zone di guerra, geografie di sangue, abbinato al sito dell’Atlante delle stragi. Dopo, ottenuti sostanziosi successi per Berlino, se ne va.

A Villa Almone, residenza romana del titolare dell’ambasciata, all’addio ufficiale per Wasum-Rainer o agli altri ricevimenti – circolano fasti abbondanti di fotografie – ci sono nomi famosi, prevedibili e no: Mario Monti e Giorgio Napolitano, Susanna Camusso e Corrado Passera, Gennaro Migliore e Giorgia Meloni. Alle pareti della villa si vedono i labari di propaganda di imprese tedesche, compresa la ThyssenKrupp (sette operai bruciati vivi a Torino nel 2007, e la Germania non ha estradato i dirigenti condannati). C’era una pubblicità del cioccolato, nella televisione degli anni Ottanta: «I ricevimenti dell’ambasciatore sono noti, in società, per il buon gusto del padrone di casa…»; in una versione, una dama nascondeva un cioccolatino nella borsetta. Il buon gusto si adegua ai tempi, e il nuovo titolare, Viktor Elbling, mette video su Youtube: «L’ambasciatore in edicola», «L’ambasciatore in macchina», «L’ambasciatore mangia un panino».

8 settembre. Una lettera aperta della Fondazione per la critica sociale propone al presidente dell’Istituto Parri, Pezzino, un convegno per fare chiarezza e per i risarcimenti. Il tema scotta: questioni economiche, giuridiche, politiche, culturali e morali. L’esito della proposta si fa ancora attendere. Toti Scialoja: «Da mesi scrivo a fermo posta, Ostenda. / Non credo più che l’ostrica risponda».

Ottobre, Roma. Alla Casa della memoria, un altro convegno fuori dal coro: Stragi nazifasciste in Italia, tra memoria e risarcimenti alle famiglie delle vittime.

Ancora ottobre, Montecatini Terme. Ecco l’iniziativa Acqua in bocca ma non troppo: tanti pomeriggi, nel complesso liberty dello Stabilimento termale Tettuccio. Dura tutto il mese e si apre con Pezzino: Atlante delle stragi nazifasciste in Italia. Il giorno dopo, Sandra Milo: I miei grandi amori, con sfilata di moda. E poi Forza Italia ha un futuro e Il papa e Medjugorie e Sex and the wine. Adorabile, Miranda Martino: La mia vita. Manca la Bella Otero, le Terme non sono come quelle di Diocleziano ma ci sono fondali degni di L’anno scorso a Marienbad. Con Acqua in bocca ma non troppo si allude alle note virtù delle acque.

In autunno, provo a chiedere quale governo ha ordinato all’Avvocatura dello Stato di intervenire nei processi, contro le vittime. Nel 2016, al tempo del decreto trasparenza, si è detto che con l’accesso civico generalizzato è arrivato in Italia il Freedom of Information Act. Allora usiamolo. L’Avvocatura risponde di no; fra l’altro, cita un decreto di Lamberto Dini – chi si rivede! – del 1996: sui rapporti fra governo e Avvocatura, silenzio, buio. La tendenza a fabbricare armadi sembra una costante, in Italia. La questione resta aperta, e non per raddrizzare il mondo; solo per sapere chi è stato, a livello governativo, a schierarsi con Adolf Hitler. Tanto per memoria.

A proposito: il monito di Mattarella, a gennaio? e le reazioni delle istituzioni giudiziarie? Chissà quanti giuristi credono davvero ai testi che frequentano. Piero Calamandrei, nel 1950, ponendo domande sulla Costituzione: «Abbiamo avuto per venti anni, sotto il regime fascista, l’esperimento di un ordinamento giuridico a doppio fondo, nel quale, dietro lo scenario venerando dello Statuto albertino, un regime di assolutismo dittatoriale faceva tranquillamente i suoi affari. Non vorremmo che anche la Repubblica diventasse un apparato di illusionismo costituzionale dello stesso stampo!» («Il Ponte», VI n. 6). Il problema è simile, e riproduce una tipica scissione di coscienza: i processi sulle stragi usciti dall’Armadio della vergogna sono stati una giustizia a doppio fondo, un apparato di illusionismo giudiziario. Così si continua a propinare una scorpacciata di sola memoria.

Secondo Isaia (1, 10-18), qualcuno molto in alto non sopporta più i riti e le litanie: rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova; sicché, venite e se ne ragiona. Ecco: la sola memoria è rito e litania. Ci vuole giustizia, dopo ne parliamo. Con l’indigestione di memoria, la risposta degli ebrei alla Legge viene ribaltata: loro dissero «faremo e ascolteremo», il memorar struggino degli italiani dice: «Ascolteremo e non faremo niente». La memoria sincera, «la puntura de la rimembranza / che solo a’ pii dà de le calcagne», quella il poeta la mette dove ci si libera dalla superbia e prima di vincere l’invidia: ha incontrato il miniatore Oderisi da Gubbio, sta per parlare con Sapia dagli occhi cuciti. Solo un esule innamorato, poteva mettere la rimembranza fra il segno e la cecità.

Durante il 2018, in riunioni varie, sollevo la questione. Indimenticabile una casa del popolo in Toscana, di quelle di una volta, con le briscoline, coi soci capaci di discussioni interminabili sulla democrazia, la dittatura, la pace, la virtù, la bontà, mentre al banco si bevono l’orzata e la spuma ragionando di donne e biciclette. Nella riunione ufficiale, fatta ammodino, con l’ordine del giorno e il verbale, mi si dà torto coi toni ufficiali di chi segue una segreteria di partito; sembra di stare negli anni Cinquanta, mancano le bretelle, la brillantina, le Nazionali accese coi cerini. Poi, a tavola, mi danno tutti ragione. Si sa, la riunione era la riunione, e poi è arrivata la minestra sul ragù di cinta, diobonino.

Provo con la narrativa e la prendo larga. Un tentativo di stuzzicare l’attenzione sul Risorgimento con qualche trucco, qualche intrusione nella docufiction, nel paratesto storico, nella narrazione tossica controllata. In tempi di nazionalismo becero, vediamo se invocare quello illustre fa da contravveleno. Ecco Mazzini e una malandrina irresistibile, una spia di Metternich, una ragazza spregiudicata e fascinosa. Mischio documenti d’archivio, testi oscuri, epistolari poco frequentati, località sconosciute. Poi presento il canovaccio in un crocchio vivace che si potrebbe chiamare circolo di letture. Bene, la proposta piace. Si comincia a leggerla a puntate, forse c’è spazio per un nazionalismo democratico, almeno letterario. Dopo i primi assaggi mi prendono da parte, sottovoce: «Senti, ma Mazzini e quella tipa con gli occhi di velluto, alla fine della fiction ci vanno, in un motel?».

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