Per l’abolizione del carcere

carceredi Luigi Manconi, Stefano Anastasia

“L’esistenza stessa di un sistema penale induce a trascurare la pensabilità di soluzioni alternative e a dimenticare che le istituzioni sono convenzioni sociali che non rispondono a un ordine naturale”1. Il primo mito da sfatare per chi voglia sostenere la ragionevole proposta dell’abolizione del carcere è quello secondo cui non se ne possa fare a meno perché è sempre esistito, perché – in qualche modo – connaturato all’animo umano e al modo di stare insieme delle sue contingenti incarnazioni. Non è così. Anzi. La storia del carcere come modalità punitiva è una storia relativamente recente, e ha a che fare con la modernità giuridica. Prima di allora, non che non esistessero luoghi di clausura, anche a fini di giustizia, ma avevano altri scopi, non quello di punire il condannato per un periodo di tempo più o meno lungo.

Nel nostro mondo, gli albori del diritto si è soliti farli risalire agli antichi romani, ai quali è possibile attribuire una prima compiuta sistemazione delle regole giuridiche e una complessa organizzazione giudiziaria. La cultura giuridica occidentale ancora non riesce a fare a meno di quanto pensarono, dissero e scrissero quegli uomini in toga. Secondo la raccolta delle opinioni dei più autorevoli giuristi romani che l’imperatore Giustiniano nel VI secolo dopo Cristo volle che fosse assemblata in quello che fu il primo codice del diritto occidentale, a Ulpiano – giureconsulto romano di tre secoli prima – dobbiamo la massima secondo cui il carcere nel diritto penale romano dovesse essere riservato esclusivamente a quella che oggi chiamiamo la custodia cautelare, e giammai essere applicato come punizione. Quando necessario, dunque, in attesa del giudizio o dell’esecuzione della sentenza, si poteva restare confinati, per un limitato periodo di tempo, in un “recinto” (questo il significato letterale della parola latina carcer), come quello di cui a Roma restano le vestigia, proprio sotto il Campidoglio: il Carcere Mamertino.

All’ombra dell’insegnamento di Ulpiano, per tutto il medioevo la pena non si è scontata in carcere. Certo, qualcuno ci finiva: per saldare un debito o per in attesa di un processo, ma “nel primo medioevo non esisteva molto spazio per un sistema punitivo di Stato” 2. Una rigida gerarchia sociale da una parte e la relativa porosità delle istituzioni feudali rendevano marginale la conflittualità tra signori e no: o ci si stava, obbedienti al signore, o ce ne si allontanava in cerca di maggior fortuna in altre terre. La faida e un sistema di compensazioni monetarie commisurate agli status del reo e della vittima finivano così per costituire le modalità ordinarie di una composizione privata dei conflitti tra soggetti tendenzialmente eguali per condizione sociale e per censo.

Questo equilibrio comincia a essere eroso con l’accentramento dei poteri del tardo medioevo, ma in un primo momento l’emergere di un interesse pubblico alla punizione si risolve nella trasformazione degli indennizzi pagati privatamente dal reo alla vittima in un sistema di pene pecuniarie pagate all’autorità pubblica, assai più esigente finanziariamente di quanto non fosse in passato. Ancora nel basso medioevo, dunque, non siamo alla scoperta del carcere come luogo di esecuzione delle pene, né tantomeno alla sua centralità che viceversa oggi conosciamo.

All’inizio dell’età moderna, invece, la scena della pena in Occidente cambia progressivamente. Di mezzo c’è la trasformazione economica e sociale degli Stati più avanzati del tempo. La recinzione delle terre comuni nelle campagne e le prime concentrazioni produttive portano alla urbanizzazione di contadini che fino ad allora avevano vissuto di sussistenza, pagando dazio al signore per la coltivazione della terra. Nasce il vagabondaggio moderno. Nello stesso tempo, il nuovo sistema produttivo ha bisogno di questa forza lavoro che arriva dalle campagne. Controllare l’uno ed educare l’altra diviene una sola cosa. In Inghilterra prima, in Olanda poi, nascono le prime istituzioni detentive moderne. Le case di correzione inglesi si trasformarono rapidamente nelle case di lavoro olandesi, dove vagabondi e piccoli criminali venivano educati al lavoro nelle nuove manifatture tessili e sfruttati nella principale produzione nazionale. Il modello si sviluppò rapidamente in tutta Europa, con accenti e denominazioni diverse.

Ci penseranno l’illuminismo giuridico e l’inventiva del nuovo mondo a dare forma a questa grande trasformazione sociale e culturale. Abbandonati il risarcimento privato e le pene pecuniarie, la nuova sensibilità punitiva sceglie la pena detentiva in alternativa allo strazio di quelle corporali. Nulla come la pena detentiva consente da un lato l’astratta e puntigliosa corrispondenza (in giorni, mesi, anni) tra pena e reato e dall’altra la sperimentazione di forme di educazione e rieducazione ai nuovi modelli produttivi. Il processo di civilizzazione delle pene approda a una nuova era. Le menti migliori si cimentano nella individuazione del penitenziario perfetto, capace di punire efficacemente, di forgiare bravi lavoratori e di rendere produttivo il tempo e le energie di migliaia di giovani uomini costretti in prigione. Alexis de Tocqueville arriverà fin nei nuovi Stati Uniti d’America per studiarne gli ingegnosi modi di organizzare le prigioni. Ne tornerà con una relazione per il governo francese e materiale sufficiente a un classico della scienza politica su quella cosa nuova che era la democrazia nella giovane repubblica federale.

Nessuno disconosce l’importanza di quest’ultima tappa nel processo di civilizzazione delle pene: una precisa commisurazione di pene che rinunciano a maltrattare il corpo dei condannati. Ma se di un approdo storico si è trattato, è mai possibile che dopo due-tre secoli non si possa chiedere alla nostra inventiva e alla nostra civiltà di fare un passo più in là e provare a mettersi alle spalle questo passato, sperimentando nuove forme di composizione dei conflitti e di risarcimento dei danni da essi provocati?

  1. L’utopia possibile dei movimenti abolizionisti, da Beccaria a Basaglia

Secondo mito da sfatare: l’abolizionismo è un’utopia inconcludente. Tali sono le vischiosità delle istituzioni ereditate dal passato che è impossibile cancellarle con un colpo di penna, un’alzata di mano o un decreto d’autorità. Seppure si possa pensare di fare a meno del carcere, non è realistico illudersi di potercela fare: non ci sarà sempre stata la pena detentiva, ma ora c’è e non possiamo prescinderne.

Siamo alle solite, nel solito punto in cui la saggezza del realismo politico è soffocata dallo scetticismo sulle possibilità di cambiare le cose – fosse pure una per una, passo dopo passo – e si trasforma in rassicurante conservazione. Tocca quindi rievocare la grande storia dei movimenti abolizionisti per riscoprire un altro realismo, quello di chi crede realizzabile ciò che ancora non si è manifestato.

Abbiamo appena finito di festeggiare il 250° anniversario della pubblicazione di una delle opere più note nel mondo del genio italico. Nel 1764 Cesare Beccaria dava alle stampe un piccolo libretto che oggi non verrebbe neanche preso in considerazione in una procedura di abilitazione universitaria (troppo smilzo, privo di un adeguato apparato di note, di incerto confine disciplinare e sottoposto a una review partigiana, fatta dagli amici e sodali del Caffè milanese). Anche allora, del resto, non fu accolto entusiasticamente dall’establishment. Il suo successo si deve piuttosto alla recezione nella patria dei Lumi, dove divenne in breve tempo un best-seller dell’epoca. Tra le molte limpide cose rimaste a fondamento della cultura giuridica liberale, Dei delitti e delle pene ne conteneva una assolutamente originale: l’idea che si potesse fare a meno della pena di morte; che si potesse e – quindi – che si dovesse farne a meno. Come ripete a ogni pie’ sospinto Luigi Ferrajoli, se la proposta abolizionista di Beccaria fosse stata messa ai voti popolari, o anche solo della opinione colta che leggeva e discuteva di queste cose, sarebbe finita lì, morta sul nascere. Ma quella proposta era l’architrave di un altro sistema di valori, di un’altra idea della pena e della vita umana, e da allora ha intrapreso una strada che ha consentito alla maggioranza degli Stati contemporanei di rinunciare in via di fatto o di diritto alla pena capitale. L’utopia di Beccaria aveva dalla sua il pragmatismo della ragionevolezza e come una goccia ha scavato la pietra. Certo restano quei 58 Paesi che continuano a uccidere in nome del diritto, e tra essi ci sono grandi stati e grandi democrazie, ma l’utopia abolizionista ha preso il sopravvento sul cattivo realismo di chi, allora, avrà irriso il giovane marchese milanese.

Nel 2012 esce negli Usa il film dedicato da Steven Spielberg ad Abramo Lincoln. Qualche anno prima avevamo visto quello stesso presidente statunitense colpito a morte in The Conspirator di Robert Redford, tragico apologo sul diritto nell’emergenza e il rituale del capro espiatorio. Lincoln torna due anni dopo, interpretato da Daniel Day Lewis, nel racconto di quello che fu un suo capolavoro parlamentare nel pieno della guerra di secessione: l’abolizione della schiavitù attraverso il XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Certo nel 1863 c’era già stata la proclamazione dell’emancipazione degli schiavi, e negli stati del nord la schiavitù da tempo non esisteva più, ma il lavoro forzato degli africani deportati negli States era un elemento fondamentale dell’economia degli stati del Sud e la subordinazione dei neri era (e sarebbe stata ancora per molto tempo) profondamente radicata nella classe dirigente americana. Ciò nonostante Lincoln quell’emendamento lo sostenne, così come due anni prima era stato lui stesso a proclamare l’emancipazione dei neri d’America. Cose che a una parte forse maggioritaria dei bianchi americani, non solo negli stati del Sud, dovevano sembrare inconcepibili si affermavano con il prudente realismo dell’utopia.

Ancor più dura è stata la recente abolizione della segregazione razziale in Sudafrica. Chi tra noi nel 1984 cantava e ballava con gli Specials Free Nelson Mandela desiderava e sperava nella fine dell’apartheid, ma non poteva immaginare che dieci anni dopo quell’uomo sepolto vivo da trent’anni sarebbe diventato il primo presidente nero della Repubblica sudafricana. Evidentemente l’utopia abolizionista dell’apartheid aveva una plausibilità concreta che anche i suoi sostenitori non gli riconoscevano. Plausibilità e saggezza nonviolenta: quella stessa messa in opera con la Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione nella repubblica sudafricana, la più importante esperienza di giustizia di transizione aliena dal codice retributivo della colpa e della pena.

È storia nostra, invece, quella dell’abolizione dei manicomi. All’inizio degli anni Sessanta, a Gorizia, inizia il lungo viaggio dell’idea abolizionista di Franco Basaglia. Idea a lungo trattata come le altre, al più come una utopia irrealizzabile. In realtà, come è evidente nei vent’anni che separano l’approvazione della legge che porta il nome del suo promotore da quella che le darà finalmente attuazione, un’idea a lungo (e tuttora) osteggiata. Il sacrificio di migliaia di esseri umani chiusi in manicomio continua a essere più tranquillizzante del “rischio della libertà” che è nella scelta di chiudere le istituzioni manicomiali. In fondo carcere e manicomio nascono insieme e si parlano di continuo, passandosi il testimone nella custodia della devianza, e specificamente di quella parte di essa che non riesce a essere spiegata con i canoni della comune razionalità. Emblematico è il manicomio criminale: istituzione anfibia, che cammina sulla terra del penitenziario e nuota nelle acque della malattia mentale. Sopravvive, il manicomio criminale, alla chiusura dei manicomi civili. Non a caso: il reo folle è il folle pericoloso. E come si vede nei ritardi e nelle resistenze opposte alla sollecitazione del Presidente Napolitano e alle stesse deliberazioni del Parlamento per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, tirare giù il muro del manicomio criminale è quasi più difficile che chiudere i manicomi civili. Dopo la chiusura dei manicomi, quanta sofferenza mentale negli anni scorsi è stata chiusa precauzionalmente negli Opg?

Ma se la cultura manicomiale è ancora dura a morire, i manicomi civili sono stati chiusi, realizzando così la semplice idea di Franco Basaglia, testimoniando ancora una volta quanto sia possibile raggiungere obiettivi apparentemente improbabili, fidando sulle buone ragioni dei propri argomenti.

  1. Testimonianze

Ma torniamo al carcere e alla proposta di una sua ragionevole abolizione. Prima di vederne teorie e implicazioni maturate tra gli addetti ai lavori, è essenziale tener presente lo sguardo di fuori. Il punto di vista esterno è essenziale nella critica di qualunque luogo comune. E nulla più di una istituzione consolidata, per di più assistita da un robusto apparato normativo e coercitivo, si presta a trasformarsi in un luogo comune.

Paradossale è la ricerca del punto di vista esterno su un’istituzione, come quella penitenziaria, per definizione chiusa. Eppure non se ne può fare a meno. E il punto di vista esterno è quello di chi osservi il carcere nella sua vita quotidiana e nei suoi esiti, nelle sue promesse e nella sua realtà. Che ciò poi avvenga effettivamente dall’esterno o attraverso la capacità critica di una buona osservazione partecipante, questo poco importa. La letteratura ci dà esempi degli uni e degli altri: di racconti originali e di narrazioni che intrecciano memorie personali di scrittori che sono stati prigionieri e non sono riusciti a liberarsi da quella condizione. Finito il tempo della prigione romantica, della cella in cui la tradizione monastica si fonde con l’individualismo radicale dell’intellettuale alla ricerca di sè, le testimonianze letterarie della prigione, da Oscar Wilde a Fëdor Dostoevskij, fino ai contemporanei Bunker e Limonov, ne costituiscono una denuncia della sua ipocrisia e intollerabilità. Più di tutte, però, merita di essere ricordata la denuncia dell’altro grande russo dell’Ottocento, Lev Tolstoj, che in carcere non ci andò mai, ma che ne denunciò la totale insensatezza attraverso un alter ego votato alla sua minuziosa osservazione, il principe Nechljudov di Resurrezione.

“Ripercorrendo il corridoio più largo (era l’ora del pranzo e le celle erano aperte), … Nechljudov provava strane sensazioni: pietà per i carcerati, e orrore e sconcerto per coloro che li avevano rinchiusi e li tenevano lì dentro, e chissà perché anche vergogna di se stesso, che osservava tranquillamente queste cose” (parte I, cap. LIII). Quando assiste alla funzione religiosa in carcere, Nechljudov-Tolstoj si trova a riflettere sul fatto che “a nessuno dei presenti … venne in mente che quello stesso Gesù, il cui nome il sacerdote aveva ripetuto fischiando un tale infinito numero di volte … aveva proibito appunto ciò che lì si faceva; … e soprattutto aveva proibito non solo di giudicare gli uomini e di tenerli reclusi, torturarli, disonorarli, giustiziarli, come si faceva lì, ma aveva proibito qualsiasi violenza sugli uomini, dicendo che era venuto per dare ai prigionieri la libertà” (parte I, cap. XL). “ ‘Perché?’ si chiedeva Nechljudov, provando più intensamente che mai quel senso di nausea morale che diventava nausea fisica, provato più volte in prigione; e non trovava risposta” (parte I, cap. LVI).

Visto ciò che aveva visto, a Nechljudov tocca discutere ripetutamente con le persone del suo mondo, dell’aristocrazia della Russia degli zar, divise tra l’entusiasmo per la sua missione caritatevole e lo scetticismo per le sue convinzioni eterodosse. Così nel detestato cognato Ignatij Nikiforovic Nechljudov trova il contradditore ideale per affermare la sua idea abolizionista: “queste prigioni non possono garantirci la sicurezza, perché la gente non vi resta in eterno, ma a un certo punto torna in libertà. Al contrario, queste istituzioni portano la gente al massimo di vizio e corruzione, cioè aumentano il pericolo”. “Lei vuol dire che il sistema penitenziario va perfezionato”, cerca di ammansirlo Nikiforovic. Ma no, risponde Nechljudov, “non lo si può perfezionare. Delle prigioni perfezionate costerebbero più di quanto si spende per l’istruzione pubblica e graverebbero ulteriormente, ancora una volta, sul popolo” (parte II, cap. XXXIII). In conclusione, “la solita obiezione: ‘che fare con i malviventi: si possono forse lasciare impuniti?’ non lo turbava più. Quell’obiezione avrebbe avuto senso se fosse stato dimostrato che il castigo riduce i delitti, corregge i delinquenti; ma essendo dimostrato l’esatto contrario è evidente che non è in potere degli uni correggere gli altri, l’unica cosa ragionevole che si possa fare è cessare di fare quello che è non solo inutile, ma dannoso, oltrechè immorale e crudele” (parte III, cap. XXVIII).

Certo l’ “osservazione partecipante” ebbe un peso, ben oltre le dispute di scuola, nella scrittura del comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, quello in cui si dice che le pene (le pene, si badi bene, non il carcere) non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione dei condannati. In quei vincoli all’esercizio del potere punitivo, e nella stessa cultura indulgenziale che ha indubbiamente segnato il rapporto della prima Repubblica con il carcere, c’era anche l’esperienza di un ceto politico che aveva conosciuto la prigione, la sofferenza che è capace di infliggere, la disuguaglianza sociale che riproduce. Laura Lombardo Radice, che sarà una delle prime volontarie laiche nel carcere riformato degli anni Ottanta, ricorda di aver scoperto un mondo nuovo in Vicolo della Penitenza (nomen omen), di fianco al carcere romano di Regina Coeli, quando con l’amico Ugo Natoli vi si recava a portare i pacchi per i fratelli Lucio e Aldo, imprigionati dal regime per ragioni politiche e cospirative. La figlia del grande pedagogista, di buona famiglia borghese, scopre così in un sol colpo il carcere e il proletariato cui dedicherà la sua vita di militante. Allo stesso modo, i padri della Patria chiamati a raccolta da Piero Calamandrei scriveranno pagine memorabili in un numero speciale di questa rivista sulla necessità della riforma del sistema penale. “Bisogna aver visto” si intitola l’editoriale del n. 3 del 1949 de Il Ponte. E vi si ricorda che nel primo Parlamento della Repubblica erano certamente centinaia gli uomini politici che avevano esperienza della prigionia. Esperienza che certamente si sarebbero riversate nella prima commissione parlamentare di indagine sulle carceri nell’Italia repubblicana appena istituita, che avrebbe avuto “il vanto di esser composta in gran parte di deputati e di senatori ex reclusi”, che quando sarebbero andati a visitare le prigioni vi avrebbero ritrovato la “soglia d’ombra del loro dolore e la guida scaltrita della loro consapevolezza” . Il fascicolo contiene scritti e memorie penitenziarie di Carlo Levi, Emilio Lussu, Massimo Mila, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Giancarlo Pajetta, Vittorio Foa, Leone Ginzburg e di molti altri che avevano sofferto quei “disumani orrori”.

Dopo aver descritto dettagliatamente il modo in cui la privazione della libertà in carcere altera irrimediabilmente la personalità del recluso, Vittorio Foa si pone il problema dell’abolizione del carcere e, se “la coscienza dei tempi” gli sembra “forse immatura per una riforma nel senso di una abolizione totale delle pene detentive”, è categorico nell’affermare che “nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni”. Così Altiero Spinelli, convinto che “per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in senso sostanziale”, scrive a Calamandrei: “più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. La pena detentiva era per lui concepibile solo a scopo intimidatorio, per periodi brevissimi, per le persone più pericolose, da destinare poi a forme di confino per un periodo di tempo definito, in un luogo dove possano condurre “una vita normale, controllata da regolari magistrati, con possibilità di guadagnare, di sposarsi, di aver casa, di vivere civilmente”.

  1. Teorie

Anche il campo delle scienze penali e criminologiche è da tempo attraversato da correnti abolizionistiche di diversa natura e diversa provenienza. Generalmente, quando si fa riferimento all’abolizionismo penale e ai suoi cultori e teorici, si fa riferimento alle idee di abolizione del diritto penale come forma di prevenzione e di composizione dei conflitti all’interno della società, tra singoli e gruppi. Luigi Ferrajoli distingue le dottrine propriamente abolizionistiche da quelle sostituzionistiche e da quelle riformatrici3. Abolizionistiche sono quelle “dottrine assiologiche che contestano come illegittimo il diritto penale, o perché non ammettono moralmente nessun possibile scopo come giustificante delle afflizioni da esso arrecate, oppure perché reputano vantaggiosa l’abolizione della forma giuridico-penale della sanzione punitiva e la sua sostituzione con mezzi pedagogici o strumenti di controllo di tipo informale e immediatamente sociale”. Sostituzionistiche sono “quelle dottrine criminologiche … che sotto il programma della ‘abolizione della pena’ propongono in realtà la sostituzione della forma penale della reazione punitiva con ‘trattamenti’ pedagogici o terapeutici di tipo informale, ma pur sempre istituzionale e coercitivo e non meramente sociale”. Riformatrici, infine, sarebbero quelle “dottrine penali che prospettano la riduzione della sfera dell’intervento penale o, per altro verso, l’abolizione in favore di sanzioni penali meno afflittive di quella specifica pena moderna che è la reclusione carceraria”. Massimo Pavarini, invece, distingue l’abolizionismo penale (“una critica radicale dell’intero sistema penale unitamente a una proposta politica volta a ‘fare a meno’ del sistema della sofferenza legale”), che qualifica come “radicale”, dall’abolizionismo istituzionale, che “circoscrive l’obiettivo della propria critica e della propria azione politica nei confronti della sola istituzione carceraria e di altre istituzioni penali segregative (come l’ospedale psichiatrico giudiziario)”, e dal riduzionismo penale, che “milita in favore di un ‘contenimento’, di una drastica ‘riduzione’ della sfera giuridico-penale”4.

E’ evidente che la nostra proposta di abolizione della pena detentiva si muove prudentemente in quelle dottrine che Ferrajoli chiama “riformatrici”, in cui convergono l’“abolizionismo istituzionale” e il “riduzionismo penale” di cui scrive Pavarini, e a noi ci sta benissimo così. Ciò non di meno, vale la pena di sottolineare come lo stesso Ferrajoli, critico acerrimo dell’abolizionismo penale, ne riconosca il valore almeno sotto due profili: innanzitutto per la netta distinzione da esso rivendicata tra istanze di giustizia e diritto vigente (distinzione essenziale per poter valutare con spirito critico quest’ultimo), e poi per il rovesciamento dell’onere della sua stessa giustificazione a carico dei suoi fautori, che non se la possono più cavare con un mozartiano così fan tutti.

Ma anche la semplice idea dell’abolizione della pena haa una sua storia di qualche rilievo, che peraltro mette insieme abolizionisti di ogni genere e riformatori à la Ferrajoli. E’ proprio lo stesso Ferrajoli, per fare un esempio, che sostiene la necessità “in prospettiva di abolire le pene detentive perché eccessivamente e inutilmente afflittive e per molti aspetti dannose”5. Dei primi anni 80 del secolo scorso sono due dei più importanti contributi dell’abolizionismo penale, Abolire le pene? del norvegese Niels Christie e Pene perdute dell’olandese Louk Hulsman. Ma siamo ancora e pienamente nel campo della proposta di abolire l’intero sistema penale, con tutte le controindicazioni garantiste di chi teme che l’assenza di una regolazione della reazione alla violenza interpersonale possa essere più grave (e più ingiusta) di qualsiasi sofferenza inflitta e disciplinata legalmente. Ma già nel 1985 il meeting internazionale abolizionista che si tenne ad Amsterdam in giugno ebbe a oggetto l’abolizione delle prigioni, e non già dell’intero sistema penale. Qualche mese prima, a Parma, su iniziativa di un memorabile assessore ai servizi sociali, Mario Tomassini, si tenne il convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere” in cui il movimento abolizionista italiano, reduce dall’approvazione della legge Basaglia, rilanciava la scelta anti-istituzionale sul versante carcerario, senza nascondersi la difficoltà del compito, e anzi mettendola a tema sin dal titolo: il difficile è liberarsi da quella necessità, da quella coazione a costringere che è l’abito mentale della ineluttabilità del carcere.

Qualche anno dopo, un altro norvegese, Thomas Mathiesen, si domanda Perché il carcere? e redige un vero e proprio “piano per l’abolizione del carcere” da attuarsi, prudentemente, in una ventina d’anni. “L’abolizione – secondo Mathiesen – può avvenire in tre modi: il primo consiste nel diminuire progressivamente i limiti massimi di pena”; “il secondo procedimento richiede lo smantellamento materiale delle struttura carceraria, che dovrebbe avvenire parallelamente alla riduzione del numero dei detenuti prodotta dalla diminuzione dei massimi di pena”; infine, “l’abolizione dovrebbe avvenire mediante il continuo trasferimento delle risorse precedentemente assegnate al sistema carcerario, in ragione di metà della somma risparmiata sul budget delle carceri, al sistema dell’affidamento ai servizi sociali”6.

Anche questa inventiva abolizionista è alle spalle di contributi più recenti e di origine pur molto diversa come quelli di Angela Davis e di Gherardo Colombo. Di fronte all’incarcerazione di massa statunitense, l’intellettuale e attivista nero-americana si chiede “come possiamo muoverci per depenalizzare l’uso di stupefacenti e la prostituzione? Come possiamo intraprendere delle strategie giudiziarie serie, che siano volte al recupero anziché esclusivamente alla punizione?”, per concludere che “la sfida più ardua e urgente, oggi, è quella di esplorare territori nuovi della giustizia, nei quali le prigioni non fungano più da nostro principale punto fermo”7. Verso nuove forme di composizione dei conflitti si muove anche la riflessione che Gherardo Colombo ha avviato dopo il suo congedo dalla magistratura. Se non si può educare al bene attraverso il male, il perdono responsabile è la via per le alternative alla punizione e al carcere. E’ la via della mediazione tra la vittima e il reo. Via tortuosa e complicata, non facile da percorrere, piena di ostacoli e di possibili effetti collaterali non graditi. Ma è una via che parte dalla constatazione della necessità di superare l’istituzione penitenziaria e la retribuzione sotto forma di privazione della libertà.

  1. Sperimentazioni

Nella prospettiva dell’abolizione del carcere si muovono anche piccole cose, passate e future, come la riduzione della pena detentiva a effettiva extrema ratio della sanzione penale nella giustizia minorile, la promessa del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e l’istituzione di case-famiglia per donne condannate con figli minori. Piccole cose nei grandi numeri della detenzione, non certo nel rilievo per i beneficiari e nell’impatto simbolico sull’opinione pubblica e sulla concezione della giustizia penale.

Quella minorile è una solida realtà. Più di trent’anni sono passati dalla sua riforma, che ha attraversato indenne la crescita esponenziale della popolazione detenuta adulta dell’ultimo quarto di secolo senza esserne messa in discussione, né in diritto, né in pratica. Non solo: dalle sue sperimentazioni, in questa fase di ripensamento delle politiche di incarcerazione di massa, transitano nel mondo degli adulti istituti di deflattivi e non retributivi come la non punibilità per irrilevanza del fatto e la sospensione del processo con messa alla prova. Certo, il carcere minorile non è ancora stato abolito, ma ci si può arrivare.

Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari è invece una scommessa. Dopo lo scandalo e due anni di rinvii siamo forse alla prova della realtà. Una prova che andrà misurata secondo il metro abolizionista, dell’abolizione del manicomio criminale così come del manicomio civile. La scommessa sarà vinta se, come è possibile che sia, gli internati non verranno semplicemente trasferiti da un grande istituto a uno più piccolo, non più presidiato da poliziotti, ma da infermieri. La scommessa sarà vinta se la scelta abolizionista arriverà fino in fondo, fino alla presa in carico e al sostegno sociale e sanitario del malato di mente autore di reato, con la effettiva assunzione di responsabilità dei servizi territoriali.

Infine, le case-famiglia per le donne condannate con figli minori. La legge già le prevede, ma le resistenze sono enormi. Eppure è questa l’unica soluzione per conciliare l’esecuzione della pena a carico delle madri con il diritto dei bambini e delle bambine a non esserne separate. La sperimentazione di questa modalità detentiva potrebbe aprire il varco a un progetto ancora più ambizioso, di cui nel mondo anglosassone si è ripreso a discutere: l’abolizione del carcere femminile. La limitatezza dei numeri (non più del 4-5% della popolazione detenuta) e la tipologia dei reati, generalmente non violenti, potrebbe già prefigurare la tappa successiva nel percorso di abolizione del carcere.

1D. Garland, Pena e società moderna, Milano, il Saggiatore, 1999, p. 42.

2G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Bologna, il Mulino, 1978, p. 49.

3L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 234.

4M. Pavarini, Il sistema della giustizia penale tra riduzionismo e abolizionismo, in Dei delitti e delle pene, n. 3/1985, pp. 525-526.

5L. Ferrajoli, loc. ult. cit., e ivi, pp. 410 e ss.

6T. Mathiesen, Perché il carcere?, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1996, pp. 191-2.

7A. Davis, Aboliamo le prigioni?, Roma, minimum fax, 2009, p. 28.

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