Alla fine dei giochi

di Giancarlo Scarpari

L’avvertimento di Renzi di votare con la destra e di mettere in minoranza il governo sulla Relazione di Bonafede sulla Giustizia induceva Conte, che pure aveva avuto la fiducia da entrambe le Camere, a presentare le proprie dimissioni al capo dello Stato; questo col proposito di evitare la discussione su quella Relazione e di ottenere il reincarico per formare un nuovo governo senza più rottamatori, ma col sostegno di una pattuglia di volonterosi, dei “moderati” di centro, di cui auspicava la pronta riunione sotto una sigla di nuova formazione.

Previsioni errate.

Una cosa è apparsa subito chiara: il fantomatico centro, ancora una volta, si è rivelato in Parlamento inesistente: coloro infatti che dicevano di rappresentarlo, fossero laici, Bonino e altri, o cattolici, il Cdu di Cesa (nel frattempo indagato per “concorso esterno” alla drangheta calabrese), alla prova dei fatti si sono rivelati tutti ostili al centrosinistra, pronti invece a schierarsi ancora una volta con la destra, avallandone anche in questo caso l’iniziativa politica.

Mattarella, per dar tempo a Conte di trovare le forze necessarie per dar vita a una nuova e non precaria maggioranza, dava a Fico un mandato esplorativo. Questa procedura, che si rivelava di nessun aiuto per Conte, cui non riusciva di convogliare attorno a sé le fantomatiche forze liberali, consentiva invece a Renzi di portare l’opera a compimento.

Il senatore di Scandicci, infatti, impegnava gli ex alleati di governo in una inutile discussione sui temi, laddove l’unico suo interesse era quello di additare una serie di persone (Conte, Bonafede, Azzolina, Arcuri, ecc.) perché contro di esse si concentrasse l’azione dei media e dei partiti di opposizione; mandato in crisi il governo, se ne andava in Arabia Saudita per rendere un omaggio ben retribuito al principe Mohamad Bin Salman, magnificando il Rinascimento di quel paese e invidiando il «basso costo del lavoro» su cui poteva contare; rientrato poi a Roma, alzava sempre più la posta, per poi far saltare bruscamente il “tavolo”, ritirando le sue pedine dal governo («pronte a rinunciare alla poltrone pur di far vincere le idee»), ben sapendo che Mattarella non avrebbe sciolto le Camere, con la pandemia diffusa, la crisi sociale in atto e il Recovery Plan da calare nella realtà.

L’intera operazione veniva accompagnata dal crescente favore dei media e dei loro referenti, bramosi di convogliare l’ingente flusso di denaro del Recovery Plan esclusivamente nei canali privilegiati dei “produttori di ricchezza” e non anche in quelli, screditati, dei “consumatori di sussidi”.

Pronto a irridere, con buone ragioni, ai vari Ciampolillo e ai “voltagabbana” aggregatisi alla esigua pattuglia dei volonterosi, il coro di sostegno ha finto di non vedere che la truppa del “simpatico corsaro” era costituita esclusivamente dai “voltagabbana” del settembre 2019, scappati dal Pd col bottino di ministri e sottosegretari appena nominati da Conte (l’operazione non aveva precedenti nella storia parlamentare dell’Occidente); così come è rimasto impassibile davanti al comportamento di un senatore della Repubblica che, durante la crisi del governo nazionale da lui stesso creata, si era recato a  colloquio con  il mandante dell’assassinio del giornalista Khashoggi, magnificando per giunta quel regime autocratico (anche questa era un’iniziativa senza precedenti, certo assai poco “onorevole” per un componente del Parlamento, rappresentante della Nazione, giusto l’ art. 67 della Costituzione).

Il coro di stampa e tv, quasi al completo, non si è fatto fuorviare da questi avvenimenti, ritenuti evidentemente di scarso rilievo, ma si è concentrato invece nella quotidiana demolizione del “Conte incapace”, insistendo sul ritardo delle cure vaccinali (evidentemente scambiando l’intero paese, che in quel mese di gennaio era primo in Europa quanto a somministrazioni, con la Lombardia di Fontana e Galletti, che allora arrancava faticosamente tra le ultime regioni in Italia), sul rifiuto di incamerare subito i 36 miliardi del Mes («è vergognoso che in un paese in cui sono morti 279 medici si stia ancora a discutere sul Mes» aveva tuonato Renzi, puntando il dito accusatore) e sulla lentezza con cui il governo procedeva nella elaborazione dei progetti necessari per ottenere i fondi del Recovery Plan (e in effetti la maggioranza di governo, impegnata per tutto il mese di dicembre a fronteggiare il fuorviante contenzioso con Italia Viva, ha tardato molto ad accorgersi che l’acronimo Ciao di Renzi – Cultura, infrastrutture, ambiente, opportunità – non era un piano concreto, ma un semplice sberleffo demolitore: e ha trascorso così alcune settimane a discutere inutilmente).

Nel frattempo, nel coro contrario al governo Conte, alla solita stampa di opposizione (che da un anno ne chiedeva le dimissioni, anche quando trattava con l’Europa), si aggiungevano ora i quotidiani del Gruppo Gedi e i media di Urbano Cairo: e proprio nelle “maratone” pomeridiane di Mentana su La 7 (ben più schierate rispetto alle sobrie e pluraliste trasmissioni serali) i giornalisti di quelle testate, da Tommaso Labate («Corriere») a Marco Damilano («L’Espresso»), ospiti fissi di quelle trasmissioni, hanno seguito la crisi “minuto per minuto”, facendo a gara nell’auspicare l’uscita di scena di Conte e la discesa in campo di Draghi.

Mattarella, visto che il suo primo appello alla responsabilità era stato raccolto solo da Tabacci e da pochi altri e che l’esplorazione di Fico si era rivelata improduttiva, confermava la previsione di Renzi (circa “l’impossibilità” di indire le elezioni nel contesto dato), raccoglieva l’indicazione che gli veniva da più parti e si giocava l’ultima carta a disposizione, chiamando proprio Draghi a formare un nuovo governo «di alto profilo», che «non doveva identificarsi in nessuna formula politica».

Al di là delle definizioni usate, si trattava in realtà di un governo di salute pubblica, che consentiva al presidente del Consiglio di intervenire, con pieni poteri, sulle emergenze in atto, la pandemia e il Recovery Plan; Draghi annunciava in Parlamento di voler fronteggiare la prima con la Protezione civile e l’esercito, mentre silenziosamente si occupava di destinare ai ministeri economici persone di sua fiducia, scelti al di fuori dei partiti (tranne il leghista Giorgetti, cui veniva affidato proprio il ministero per lo Sviluppo economico). Dovendo garantirsi il sostegno di una maggioranza composita, ma stabile, lasciava che le forze politiche che lo appoggiavano indicassero le loro scelte per ricoprire le altre caselle, di ministri e sottosegretari, poco esercitando – ci si augura, visti gli esiti – i poteri conferitigli. Fortunatamente la Meloni riservava a Fd’I il comodo ruolo di “oppositore di sua Maestà” (ma solo dopo aver scritto ai vari giornali che avrebbe comunque sostenuto ogni iniziativa di Draghi utile per gli italiani), perché in caso contrario, oltre ai leghisti Rossano Sasso (che citava l’Inferno di Topolino, convinto che fosse quello di Dante), Stefania Pucciarelli (favorevole al post che auspicava l’uso dei forni crematori per i migranti) e Lucia Bergonzoni (l’accompagnatrice muta di Salvini in Emilia, che si era vantata di non aver letto un libro da tre anni), avremmo potuto contare tra i sottosegretari anche personaggi del tipo di Elena Donazzan (assessore all’istruzione della Regione Veneto che canta alla radio Faccetta nera) o di Francesco Acquaroli (l’invitato di riguardo, il 28.10, a una cena commemorativa della rivoluzione fascista, ora presidente della Regione Marche).

Il nuovo governo, peraltro, fosse o meno dei “competenti” o dei migliori”, otteneva subito degli effetti immediati: il Mes, questo prestito a lungo invocato per «salvare tante vite umane», spariva letteralmente dalla scena; la questione della prescrizione, strumentalmente agitata per affondare il governo Conte, veniva subito abbandonata e silenziosamente rinviata a data da destinarsi; la guerriglia, quotidianamente condotta dai presidenti delle regioni a guida Lega contro l’ esecutivo, accusato di accentrare (malamente) la “lotta contro la pandemia” e di sopraffare le autonomie locali, con l’entrata del partito di Salvini nel governo cessava di colpo; e anche i più accesi contestatori – Zaia a novembre aveva guidato la “rivolta dei governatori del Nord” per tenere aperte le piste di sci durante le festività natalizie – di fronte alla decisione del governo Draghi di “chiudere tutto” anche a Pasqua, si erano zittiti e avevano prontamente obbedito.

Questi effetti, per così dire collaterali, non erano stati per niente casuali, ma erano dipesi dalla nuova composizione assunta da questo governo: è vero che, formalmente, non corrispondeva «ad alcuna formula politica» (come indicato da Mattarella), tuttavia il nuovo esecutivo, rispetto al precedente, presentava l’assoluta novità di vantare numerosi esponenti della destra in qualità di ministri e sottosegretari.

Orbene, se anche, astrattamente, la nascita di un governo calato dall’alto può considerarsi il frutto del “fallimento della politica” (ma anche su questo il discorso sarebbe lungo), è certo invece che l’inserimento della destra in questo esecutivo è stato il prodotto vincente di una politica ben determinata e spregiudicata, che ha potuto contare sull’appoggio dei media e sui contrasti interni dei due maggiori partiti di governo, contrasti rimasti occulti durante la crisi, ma prontamente scoppiati non appena il Conte ter non ha visto la luce.

Renzi, con la sua iniziativa, ha infatti riportato al governo del paese una destra che, in precedenza, era fuori gioco e che, ogni giorno, manifestava la propria irrilevanza, recitando il solito disco rotto («Alle urne! Via il governo non eletto dal popolo»); è riuscito così, con un sol colpo, a rimettere sul piedestallo Salvini, cui è bastato fare in 24 ore una rapida abiura e dichiararsi europeista per essere festosamente accolto dal «Corriere» e ha persino “risuscitato” Berlusconi, il cui partito era avviato a una progressiva estinzione.

Quale peso effettivo, poi, avrà questa destra nelle scelte del governo Draghi è ancora presto per dirlo e lo si vedrà quando il nuovo esecutivo, dopo le parole e le attese, comincerà a operare.

Si possono invece valutare sin d’ora i passaggi che hanno consentito a Renzi di portare a termine questo “capolavoro”.

L’anello più debole della precedente maggioranza, malgrado le apparenze, non è stato il M5S, pur gravato da miniscissioni, praticate o annunciate, quanto piuttosto “l’ultimo partito rimasto”, il Pd.

Il 13 gennaio, lo stesso giorno in cui Renzi promuoveva l’attacco al governo facendo dimettere le ministre, il segretario Zingaretti, valutata come «incomprensibile» quella scelta, affermava che per il partito la linea da seguire era chiara ed era quella di sostenere e proseguire con Conte e il M5S; di contro, il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, senza commentare la condotta di Renzi e senza nominare Conte, si affrettava a comunicare lo stesso giorno all’Ansa una linea opposta, quella di proseguire con una maggioranza inclusiva di Italia Viva.

Poteva allora sembrare una schermaglia tattica, ma in realtà i due interventi evidenziavano la diversa linea politica praticata dai gruppi parlamentari nominati da Renzi da quella indicata per il partito da Zingaretti; ma questa frattura ben presto si rivelava ancora più profonda, perché, una volta caduto il governo, si riproduceva, con sicuri segnali, anche in molte articolazioni locali del Pd, dove gli orfani di Renzi, a lungo allineati e coperti, si palesavano ora numerosi e ciarlieri. Cominciava così una polemica continua col segretario, che inizialmente era improntata a un parlar d’altro (le donne discriminate nelle nomine, il doppio ruolo di Orlando, ministro e anche vicesegretario del partito, ecc.), ma che successivamente puntava al bersaglio grosso attraverso una serie coordinata di interviste rilasciate da vari sindaci, da Gori, a Nardella, a Decaro, tutti ostili al rapporto di Zingaretti con Conte e il M5S; e Bonaccini, già in passato in sintonia con Zaia, quando si trattava di ottenere “più autonomia” per le Regioni, questa volta si allineava a Salvini, per chiedere con forza la riapertura dei ristoranti alla sera (e questo malgrado l’evidente crescere di una pandemia che presto avrebbe portato l’intera Emilia Romagna in zona rossa).

Naturalmente gli intervistati si guardavano bene dall’indicare quale fosse la loro proposta alternativa (che inevitabilmente li portava ad allearsi con i fuoriusciti Renzi, Calenda e parte del centrodestra: ma questo era, per il momento, indicibile), né i distratti intervistatori glielo chiedevano; Mentana provvedeva inoltre a gettare benzina sul fuoco, lanciando persino un improbabile sondaggio sul futuro (il M5S con Conte avrebbe visto il Pd rifluire a quarto partito), alimentando, con l’agitare questo straccio rosso, lo scontro apertosi nel presente.

A questo punto Zingaretti decideva di drammatizzare la situazione e con parole di fuoco («Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e di primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid»), si dimetteva. La mossa coglieva di sorpresa soprattutto i critici interni, che mantenevano un significativo silenzio per 24 ore (!). Poi, al solito, preoccupati per le future candidature elettorali, cominciavano a parlare d’altro (un congresso a ottobre, un traghettatore, un segretario donna), fino a che Letta accettava di guidare il partito sino al 2023, mentre Zingaretti, da presidente della Regione Lazio, in quegli stessi giorni, allargava la giunta a esponenti del M5S.

Le correnti del Pd legate a Renzi accusavano il colpo, sentendo che l’aria era cambiata: a marzo qualche giornalista, rimasto silenzioso a gennaio, aveva finalmente chiesto conto di quanto il senatore di Scandicci aveva combinato dai sauditi (permettendosi altresì di ironizzare sulla sua autointervista assolutoria); e Marcucci, Lotti e Orfini, dopo aver agevolato l’operazione di Renzi contro Zingaretti e Conte, si ritrovavano il primo sostituito da Letta (e questo non li lasciava certo sereni) e il secondo proiettato alla guida del M5S (e non più sui banchi universitari dove erano sicuri di averlo spedito).

Quello che era risultato impossibile all’ex segretario, un mediatore tra le correnti e per giunta zavorrato da una provenienza Ds, sempre invisa alla cultura democristiana ormai prevalente nelle sfere dirigenti del Pd, era riuscito più agevole al cattolico Letta, che, col semplice annuncio della sua candidatura, aveva zittito i loquaci amici di Renzi all’interno del partito.

Il discorso di investitura era stato assai articolato: dopo aver ringraziato Zingaretti (per «averlo cercato»), Letta rendeva omaggio ai suoi “padri” (Andreatta, Prodi, Delors)e al Mattarellum; poi andava a esporre il programma (rifondare il Pd, far discutere i circoli, aprire le porte ai corpi intermedi, costruire reti di prossimità;), quindi delineava la collocazione politica del partito, che doveva identificarsi col governo Draghi («è il nostro governo»), propugnare una politica europea «solidale e sostenibile» (era intollerabile la presenza di governi come quello polacco) e guidare una «nuova coalizione di centrosinistra», alternativa alla destra di Meloni e Salvini (non a caso tra i punti del programma venivano esplicitamente indicati lo Jus soli e la cittadinanza italiana ed europea da conferire a Patrick Zaki): un partito che doveva parlare con molti, da Speranza a Renzi, da Fratoianni a Calenda e che doveva poi confrontarsi col nuovo M5S di Conte.

Rimanevano margini di voluta ambiguità: nelle Proposte inviate ai Circoli per la discussione, i nomi degli interlocutori sparivano e il richiamo al Mattarellum veniva qui diluito in «una nuova legge che permetta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, superando le liste bloccate».

Ma rimanevano, più pesanti, alcuni vuoti, quelli riguardanti i diritti sociali, per esempio: nel discorso vi era un semplice accenno alle disuguaglianze crescenti, ma nessuna indicazione su come affrontarle (al di là di un generico richiamo a una tassazione progressiva); fuori agenda restava anche la “questione meridionale” (che Draghi aveva delegato alle competenze della ministra Carfagna); mentre, quando ha voluto proporre «idee nuove in economia», Letta ha riesumato quella della partecipazione, tramite azioni, dei lavoratori agli utili delle grandi imprese: un’idea niente affatto nuova (ne aveva parlato anche Einaudi settant’anni fa), da sempre servita per contrastare la conflittualità operaia e ora evocata al fine di ricordare che un «comune destino» deve unire nell’impresa lavoratori, management e azionisti.

Un discorso di stampo ulivista, dunque, che mitizza quelle due lontane coalizioni vincenti e che, comunque, dovrà misurarsi con una realtà da allora profondamente mutata: un discorso che ha spento, per il momento, l’opera di disturbo dei “renziani” del Pd, che indossando la maschera si sono prontamente accodati, ma che ora va declinato in concreto nell’arduo tentativo di por fine ai diversi e contrastanti linguaggi della “torre di Babele”.

Il primo segnale verrà dagli oltre 5.000 circoli, incaricati di discutere e riferire sulle venti Proposte inviate dal neosegretario.

Dal numero e dalla qualità delle risposte si saprà così se questi circoli esistono anche nella realtà e se questa forma-partito avrà ancora un futuro.

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