Appena fuori. Diario cinematografico (II)

Lo chiamavano Jeeg Robotdi Antonio Tricomi

Steven Spielberg, Il ponte delle spie (10 gennaio 2016)

In fondo, quando vai a vedere Spielberg, sai quello che ti aspetta. E dunque, se poi ti trovi lì a guardare nervosamente e di continuo l’orologio sperando che le due ore e mezza passino in fretta, la colpa è tutta tua, che hai scelto, chissà poi perché, di andare al cinema. E neppure puoi dire di esserti imbattuto nello Spielberg peggiore: il consueto distillato di americanismo dal volto umano, cioè in salsa democratica, ti è stato infatti largito con sufficiente pudicizia (merito, magari, del contributo alla sceneggiatura offerto dai fratelli Cohen). Che noia mortale, però, hai dovuto patire! Macchina narrativa perfettamente oliata, ci mancherebbe. Ma tutto già visto, tutto già detto, tutto invariabilmente uguale a se stesso. Duel e Lo squalo, E.T. e qualche Indiana Jones, quindi fiabe apocalittiche o edificanti e – ancor più – cartoni animati en travesti: il meglio di Spielberg – comunque la si pensi su di lui e dal punto di vista in senso stretto cinematografico – non resta, oltre ogni ragionevole dubbio, pur sempre questo?

Todd Haynes, Carol (23 gennaio 2016)

Visivamente impeccabile, fino al millimetro; così debole, nella costruzione narrativa che lo sostiene, da scivolare, addirittura, nel luogo comune. E, con tutta probabilità, sono le sue virtù a generare i vizi che lo zavorrano. La sfarzosa oleografia alla quale, magari intenzionalmente, il film si riduce, e che a tratti sembra quasi voler ricalcare la lezione figurativa di Edward Hopper, appare infatti troppo estetizzante, troppo manieristicamente compiaciuta, per non implicare situazioni, psicologie, personaggi oltre misura semplificati o stucchevolmente convenzionali. Le figure maschili, in particolar modo, risultano prive di qualsivoglia tridimensionalità, degradandosi a maschere o caricature. E affrettata, lacunosa, stereotipata si rivela anche la caratterizzazione psicologica quantomeno della coprotagonista. Di conseguenza, pur presentandosi quale garbato tableau vivant intimista, Carol non può che lasciare emotivamente freddi gli spettatori appunto perché esercizio di stile calligraficamente freddo.

Aleksandr Sokurov, Francofonia – Il Louvre sotto occupazione (2 febbraio 2016)

Forse è realmente andata così: pretendendo non fosse più Dio a legittimarne necessità, fasti e orrori, e inoltre offrendosi quale solo possibile collante, fisiologicamente laico, di una società fondata su due principi – relativismo culturale e individualismo etico – giocoforza inclini a derive nichilistiche, il potere, in età moderna e nel Vecchio Continente, ha chiesto all’arte – al desiderio, che geneticamente la muove, di riscattare il particolare elevandolo all’universale e di esprimere il vero incondizionato attraverso il bello assoluto – di mutarsi non già in un suo pur canonico arredo, ma nella propria sempre ineludibile giustificazione ideologica. Ecco perché non ne ha banalmente combattuto o tentato di irreggimentare l’insopprimibile pretesa di sovrana libertà. Negli ultimi due o tre secoli, con l’arte, il potere ha persino accettato di scendere, in una qualche misura, a patti; l’ha blandita, e se n’è ammantato, poiché di essa ha avuto costantemente bisogno, al suo favore, e a nient’altro, dovendo chiedere la propria consacrazione. In maniera sempre strumentale, questo è vero, ma in tal modo comunque concedendole – ben oltre le sue intenzioni e dunque, invariabilmente, a proprio rischio e pericolo – la facoltà, anche solo puramente astratta, del dissenso. Ne consegue – pare volerci suggerire Sokurov – che l’arte avrebbe potuto e anzi dovuto rivelarsi, in epoca moderna, l’unica forma realmente efficace di resistenza al dominio: il solo progetto, autenticamente umanistico, di sabotaggio, addirittura sistematico, della vocazione nichilistico-totalitaria del comando. Quanto mai indegni, perciò, gli autori vilmente sottrattisi a tale missione di civiltà; indiscutibili guide etico-politiche, invece, gli artisti fedeli a questo loro ideale mancato. Solo che oggi – sembrerebbe lasciar intendere il cineasta, almeno se si scorge in Francofonia la prosecuzione di un discorso già abbozzato nel Faust – il potere non sa più che farsene dell’arte: non è ad essa, bensì allo spettacolo – cioè alla riconversione del sistema massmediatico in scenografia, apparato o, addirittura, quintessenza del comando – che chiede di legittimare le proprie scelte ed epifanie, la sua stessa natura. Tuttavia, lo spettacolo gli è, per l’appunto, sempre e soltanto consustanziale, e quindi non può che – in maniera esclusivamente tautologica – convalidarne forme e sostanza, mentre l’arte è frattanto divenuta nulla, un fantasma socialmente negletto e perciò – sotto qualsivoglia aspetto – sterile: né ha la capacità di demistificare il potere, né questo le impone di convertirsi in un addentellato della propria retorica. Somiglia a una nave che, sballottata fra le onde, è solo attesa dal momento del suo definitivo naufragio, dall’ora – a malapena rinviabile – dell’apocalisse. Così come – questa la tesi, neppure troppo implicita, di Sokurov – ricorda un’imbarcazione destinata allo schianto quella società europea (o, per sineddoche, quell’intera comunità occidentale che il regista considera una figlia oramai solo degenere delle tradizioni culturali del Vecchio Continente) prossima all’autodistruzione appunto perché letteralmente fagocitata da una barbarica sovranità neo-totalitaria alla quale, avendo l’arte perduto la facoltà di tratteggiare forme sia utopistiche sia tangibili di autentica resistenza al dominio, nulla e nessuno si dimostra più in grado di opporsi sul piano tanto etico quanto politico. La consunzione della civiltà tutta: eccolo, per l’autore di Francofonia, il corollario implicato dalla deflagrazione dell’arte.

Gabriele Mainetti, Lo chiamavano Jeeg Robot (27 febbraio 2016)

“Houston, we’ve had a problem”. Già, perché questo parodistico centone postmoderno della cultura pop, sia fumettistica sia cinematografica, mi è piaciuto parecchio, fino a sembrarmi un lungometraggio mirabilmente scritto e ancor meglio diretto, un piccolo gioiello della filmografia italiana dei nostri anni. E allora, ecco qui il mio problema: mi sono, per caso, definitivamente rimbambito? Però non credo. È che Lo chiamavano Jeeg Robot deve molto a una sagace, autoironica regia brillantemente manieristica cui non si rivela estranea la lezione dei Manetti Bros., in talune occasioni – cioè a dire in prodotti perlopiù televisivi come, per esempio, la serie poliziesca con protagonista l’ispettore Coliandro creato da Carlo Lucarelli – abilissimi a tracciare una strada percorrendo la quale diventi proficua la rivisitazione in salsa eminentemente nostrana dell’ormai da tempo indigeribile tarantinismo. E parimenti deve, il film, a un sorprendentemente straordinario trio di attori che ci regala personaggi non scontati e anzi in una certa misura persino originali, se paragonati ai principali modelli di riferimento. Sì, forse sono davvero vittima di un brusco processo di imbarbarimento. E tuttavia quello femminile, in special modo, mi è addirittura sembrato un personaggio, se non magari indimenticabile in senso assoluto, tra i più significativi, in ogni caso, della recente produzione cinematografica italiana a me nota. Starò mica dando i numeri? Appunto: “Houston, we’ve had a problem”.

Thomas McCarthy, Il caso Spotlight (5 marzo 2016)

Sarà pure un solido esempio di sobrio cinema civile americano, come in molti hanno scritto. E tuttavia: il film dov’è? La materia avrebbe offerto inesauribili spunti di riflessione etica, politica, culturale. Alcuni dei quali soltanto, però, vengono a malapena abbozzati o tenuti implicitamente sullo sfondo da una macchina narrativa senza alcun dubbio efficiente, ma che si accontenta di ridursi alla pura ricostruzione cronachistica delle diverse tappe che condussero alla genesi e alla pubblicazione di un’esplosiva, e non di meno rigorosa, inchiesta giornalistica. Né i personaggi ricalcati sui veri protagonisti di tale vicenda, tanto quelli negativi – i preti pedofili e i prelati della Chiesa cattolica che ne coprirono sistematicamente i reati – quanto quelli positivi – i reporter che raccontarono questa lunga, oscena storia –, ci appaiono realmente definiti, problematici o comunque sia tridimensionali, e quindi in grado, perlomeno loro, di spingerci ad affrontare criticamente temi oltre misura significativi, controversi, tragici. In altri termini e, certo, per estremo paradosso: un superficiale film politicamente corretto su un’approfondita indagine politicamente scorretta.

László Nemes, Il figlio di Saul (7 marzo 2016)

Impressionante. Per il rigore etico, estetico, con cui esamina – senza mai interpellare o ricompensare pietisticamente le viscere dello spettatore – la capacità del potere totalitario, e quindi del male diventato assoluto, di ridurre a idiota ciascun individuo preso nella sua rete, quale che sia il ruolo per lui previsto – vittima o carnefice – dalla perversa logica distruttiva, autodistruttiva, intrinseca a una sempre belluina sovranità illimitata. Perché, catturati in tale abisso, che si rischi la pelle per difendere la dignità della vita o che si accetti invece la mansione di macellai, ci si muoverà, comunque sia, da automi, mantenendosi emotivamente scollati dalle proprie azioni, lasciandosi autisticamente guidare da impulsi biologici, cioè – in un simile contesto – impersonali, robotici. E dunque, solo quando pronunciato trovandosi fuori da un sistema siffatto, il giudizio morale sugli uni o sugli altri può dimostrarsi indubitabilmente fondato e immaginarsi senza ambiguità cogente, così da arrivare a scoprire degli angeli nei primi, dei demoni nei secondi. Forse, fintantoché si è ingranaggi di un luciferino meccanismo autoreferenziale di alienata e alienante sopraffazione seriale, esclusivamente il giudizio politico, ossia storico-culturale, può fungere da bussola all’individuo – indipendentemente dal compito che egli è chiamato a svolgere nel congegno sociale edificato dal potere – per distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, l’umano dal bestiale.

Gianfranco Rosi, Fuocoammare (14 marzo 2016)

Se, per Zavattini, l’etica, ancor prima che l’estetica, del neorealismo avrebbe dovuto implicare il rifiuto del puro racconto a vantaggio di una vocazione squisitamente documentaria, e dunque il ripudio di ogni ossessione fictionale per dar forma a un cinema anzitutto dello sguardo, potremmo sostenere che Rosi non si limita a rivisitare siffatta tradizione espressiva, ma la spinge a tal punto all’estremo da codificare una maniera figurativa che non sarebbe un azzardo definire evocativo iperrealismo pittorico. Una maniera che, appunto perché si sottrae ai vincoli del narrare, costruisce il racconto solo accostando immagini dal vero – e quindi storie o visioni del creato – per analogia, per contrasto o in risposta a (e per suggerire in chi osserva) una qualche suggestione di significato. In altre parole, una maniera capace – letteralmente – di schizzare fotogrammi avvalendosi di un procedimento intrinsecamente poetico, che il più delle volte vuol dire lirico, in qualche occasione epico, pressoché mai didascalico o epigrammatico. Il risultato è un ordito cinematografico in cui il reale – di per sé, e non in quanto semplice oggetto della narrazione o perché interpretato ideologicamente – diventa una sorta di armoniosa partitura allegorica che tocca allo spettatore decifrare senza tuttavia pretendere di poterne ridurre l’inesauribile complessità semantica a questa o quella comunque sia asfittica esegesi univoca. Il reale non è circoscritta cronaca lineare, ma proliferazione incontenibile di segmentati o circolari tempi storici differenti; né si può ragionevolmente ambire a riconvertirlo nella pura matrice di assolute retoriche culturali o di inderogabili principi etico-politici, giacché esso si rivela la sconfessione – addirittura preliminare – di ogni potenziale, nociva, chiusura identitaria. Questo sembra volerci dire Fuocoammare. E anche stavolta, come in Sacro gra, Rosi è bravissimo nel condensare in una sofferta immagine, per così dire naturale, la polifonia simbolica che egli mira a costruire in ciascuno dei suoi lavori. Lì provvedeva il riferimento visivo a palme condannate a morte dall’azione del punteruolo rosso a offrirci la principale, e però non esclusiva, chiave di lettura di un film che desiderava anche essere una documentaria ricognizione saggistica sulla salute, non proprio buonissima, dell’Italia tutta. Qui è la battaglia condotta per gioco da schiere di preadolescenti contro innocenti fichi d’india perciò destinati al massacro a suggerirci di interpretare gli oramai incalcolabili naufragi di decine di migliaia di migranti nel Mediterraneo in primo luogo come gli orribili esiti di un’autentica guerra globale a bassa intensità: come un’oscena ecatombe che svela gli europei tutti – anche quando ciascuno di noi, in piena e addirittura ingenua onestà, non possa sentirsene direttamente responsabile – comunque colpevoli sul piano morale, persino più che politico, giacché istintivamente propensi a chiudere gli occhi al cospetto del reale per esimersi dall’obbligo di farci i conti. Forse non un capolavoro, come del resto non lo era Sacro gra. Ma che Fuocoammare sia un film riuscito, necessario, eticamente spietato, cioè tragicamente e poeticamente vero, questo, non lo si può negare.

Lenny Abrahamson, Room (20 marzo 2016)

Tutto funziona discretamente bene, e a tratti persino al meglio, finché ci viene mostrata la reclusione di una giovane madre e del figlioletto costretti, magari anche oltre ogni sincera predisposizione, a stringere l’una con l’altro un rapporto più che simbiotico per mantenersi in vita, cioè per trasformare nel mondo intero la minuscola stanza che li vede prigionieri e, in tal modo, convertire in esistenza affettivamente, simbolicamente ricolma l’annichilente vuoto della propria condizione oggettivamente, psicologicamente mortuaria. Straordinari, in questa fase, sono anzitutto i monologhi attraverso i quali il bambino, dal suo niente di esperienza reale, riesce però a costruirsi, letteralmente, un proprio organico universo culturale, emotivo e, immaginariamente, anche relazionale, dando, in forma quasi magica, consistenza linguistica, cioè nomi puntuali ma al contempo restii a veicolare esclusivamente significati circoscritti, alle cose che conosce, affinché poi siffatte parole non di meno rimandino alle cose che, invece, egli ignora e cui può sperare di accedere solo pensandole alla stregua, appunto, di sillabe da pronunciare. A non convincere, nella prima parte del film, è forse soltanto una sua certa fin troppo artificiosa, fin troppo estroflessa metaforicità. La decisione, coerentemente anti-narrativa, di non offrire informazioni dettagliate sulla maniera in cui i due protagonisti sono venuti a trovarsi esclusi dal mondo, come pure la scelta di non rendere tridimensionale la figura del loro aguzzino e di lasciare appena abbozzato il legame di costui con le proprie vittime, non hanno il potere di inficiare l’intera tessitura drammaturgica, giacché anzi ne rinvigoriscono l’ispirazione quasi totalmente evocativa o, per meglio dire, lirico-paradigmatica, e tuttavia tendono a far scivolare il racconto in una dimensione sospesa fra schematico allegorismo e istintiva ricerca di comoda empatia con il pubblico. Difetti inizialmente perlopiù potenziali, ma che divengono il perno stesso della narrazione nella seconda metà della storia. Quando per eccesso di banalizzazione o di inverosimiglianza, quando perché convenzionali o inclini a ricattare emotivamente chi osserva, fatto è che gli eventi, le evoluzioni psicologiche dei protagonisti, i nuovi personaggi che irrompono in scena, le situazioni in cui i primi si trovano a interagire coi secondi, tutto ciò, insomma, cui assistiamo dopo che madre e figlio sono riusciti a salvarsi dalla loro prigione, rende il film improbabile e, al tempo stesso, retorico: a suo modo ancora agito da un intento poetico-allusivo ma, chissà quanto consapevolmente, troppo preoccupato di parlare alla pancia degli spettatori, di commuovere finanche il pubblico di bocca buona, senza più prendersi reali e proficui rischi espressivi, compreso quello di frustrare l’inclinazione al facile pietismo. Perché, in fondo, per soddisfare il bisogno – nutrito da molti frequentatori delle sale cinematografiche – di identificazione sentimentale con le vicende e coi personaggi mostrati da un film, e col film stesso, non c’è forse via più diretta che narrare le derive tragiche patite dal rapporto che lega un’incolpevole madre oltraggiata a un innocente figlioletto vessato.

David Grieco, La macchinazione (27 marzo 2016)

“No, ti ringrazio. Preferisco rifiutare la tua proposta. Non ho nessuna voglia di recensirlo. E la tesi che vi troverai esposta non c’entra nulla: è l’ultimo dei problemi del film. Certo non gli giova, anche perché, a pensarci bene, si rende incerta a se stessa. Il Potere avrebbe cioè ucciso Pasolini non perché egli fosse entrato in possesso di informazioni dinamitarde che avrebbe poi utilizzato in Petrolio, ma perché, in quel libro, avrebbe ricopiato, parola per parola, brani di un testo altrui già edito e, almeno in certi ambienti, per nulla ignorato, benché fatto immediatamente sparire dalla circolazione: Questo è Cefis, pubblicato in ciclostile dal fantomatico Giorgio Steimetz, pseudonimo non si è mai capito di chi. Insomma: Pasolini sarebbe stato fatto fuori da un complotto ordito dal Palazzo intero pur non avendo egli niente in mano e solo perché era Pasolini, ossia un intellettuale ben più autorevole dell’ignoto Steimetz di turno in caso avesse riproposto, pur senza addurre prova alcuna, denunce non sue. Bah. Che pensare? Forse la gente, prima di lanciarsi in ipotesi di questo tipo, dovrebbe rileggersi bene gli Scritti corsari, e in particolare Il romanzo delle stragi, e accertarsi di aver inteso l’autentico nocciolo tragico del messaggio pasoliniano circa la completa delegittimazione civile dell’intellettuale, e in special modo del letterato, nel nostro tempo. E comunque, ti dicevo, non è tanto l’ossessione complottistica, apoditticamente assimilata, a nuocere alla Macchinazione, quanto la sua estrema goffaggine. I vari personaggi, per esempio, sono tutti al limite del caricaturale: stereotipi, a tratti davvero insopportabili, che nessuna prova di attore – anche perché la scelta degli interpreti è perlopiù incongrua – sa rendere tridimensionali. Pasolini è ridotto quasi a una macchietta: a una posa insostenibilmente ridicola e, inoltre, a una maschera solo maldestramente tragica del teatro dell’arte che si esprime in napoletano (per quanto il povero Massimo Ranieri abbia comunque tentato, nella recitazione, di rendere irriconoscibile la propria originaria pronuncia). Il suo legame con la madre, poi, è rappresentato in maniera pateticamente inverosimile. E naturalmente, tanto per mantener fede all’ovvio, il film si apre con un suo rapporto orale. Per non parlare, me ne stavo quasi scordando, di quella risibile sequenza nella quale, per eleggerlo a profeta, lo si accredita – metaforicamente, certo – di una visionarietà a tal punto implacabile da condurlo a figurarsi in largo anticipo non soltanto masse di beoti consumatori o di squali della finanza tutti ugualmente incollati ai loro telefonini, ma, addirittura, il cyberspazio (cui si allude con insulsa citazione da Matrix). Oscenamente ridicolo, non ti pare? Sicché, te ne prego, non insistere, per cortesia: parlare di un film così mi sembrerebbe persino di cattivo gusto. Né voglio correre il rischio di somigliare a quel recensore di cui parla Flaiano in Diario notturno. Ricordi il folgorante frammento in questione? «Una signora in visita ad un illustre critico se ne va dimenticando l’ombrello sul tavolo. ‘Lo recensirà’, dice F. a cui il piccolo incidente viene riferito». Ecco: io non sono illustre, questo è vero; tu, però, non chiedermi di recensire un ombrello, ti scongiuro. Ché qui neppure piove, peraltro”.

Ethan Coen, Joel Coen, Ave, Cesare! (28 marzo 2016)

Potrebbe anche dipendere, almeno in parte, dalla traduzione, che smorza, forse, certi affondi sulfurei o taluni giochi col nonsense verosimilmente connaturati alla quasi totalità dei dialoghi. L’impressione, però, è che questo elegante pastiche postmoderno – pur confermando la straordinaria abilità dei fratelli Cohen nel cogliere le matrici ideologiche dei principali generi cinematografici hollywoodiani non solo classici per offrircene coltissime demistificazioni perlopiù parodistiche – risulti, alla fin fine, un esercizio di stile più umoristico che corrosivo, più brillante che caustico. Un impeccabile divertissement autoriale che sbeffeggia e quindi – fosse pure in minima quota – assolve l’oggetto della propria rappresentazione molto più di quanto lo squarci e dunque – senza troppi scrupoli – lo dissacri.

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