Le nostre ragioni di un no

Le ragioni di un nodi Marcello Rossi

[Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Mario Monforte, Tomaso Montanari, Mario Pezzella, Pier Paolo Poggio, Giancarlo Scarpari, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]

Che «Il Ponte» sia legato a doppio filo alla Costituzione del ’48 è cosa nota. A tutta la Costituzione, anche all’art. 138 che concerne le leggi di revisione. Se però la “revisione” impegna ben 47 articoli della Parte II («Ordinamento della Repubblica») – cioè il 55% di questa Parte – allora è lecito pensare che l’originaria Parte II sarà letteralmente stravolta. È possibile che uno stravolgimento di tal fatta non si ripercuota anche sulla Parte I («Diritti e doveri dei cittadini»)? E se sì, come io ritengo con certezza, non sarebbe stato più corretto, a ragion di logica, proporre una costituente? Comunque, costituente o meno, io non credo che la difficile situazione politica ed economica che stiamo attraversando trovi una soluzione con la messa in opera di una nuova costituzione, e per di più di una costituzione che, tra le altre cose, come prima risoluzione, con il pretesto di ridurre le spese del potere legislativo, ridisegna le funzioni di un Senato che, in ossequio al mito della velocità del legiferare, non darà più la fiducia al governo e non sarà più eletto direttamente dai cittadini.

Io ritengo – e l’ho già scritto più volte – che leggere un disegno di legge due volte – una volta alla Camera e una volta al Senato – non comporti una lentezza nel legiferare e non sia una perdita di tempo e per di più le leggi (e i relativi decreti attuativi, che però nessuno prende in considerazione) sono momenti importantissimi della vita associata e allora leggerle due volte è sempre meglio che leggerle una volta sola, tanto che si potrebbe pensare che il bicameralismo si sia chiamato “perfetto” proprio per i vantaggi indotti da questa doppia lettura.

Possibile che i nostri costituenti – i Mortati, i Moro, i Calamandrei, i Codignola, i Terracini – non si siano posti il problema? Possibile che in un momento di grande difficoltà per il paese, che usciva dalle macerie morali e materiali del fascismo, si sia dato vita a un inutile doppione del potere legislativo? Non era questo apparente doppione un di più di democrazia di cui il paese aveva bisogno? E oggi, in ossequio al mito futurista della velocità, che poi diviene fascista, possiamo davvero rinunciare a questo di più di democrazia sposando le “raffinate” elaborazioni di una Maria Elena Boschi?

Con questo non voglio dire che non si debba pensare a una riorganizzazione del parlamento. Un dimagrimento delle due Camere si imporrebbe, per cui forse 200 senatori e 400 deputati, pagati la metà di quello che oggi percepiscono, sarebbero più che sufficienti. Ma sufficienti per che cosa? Per fare le leggi e non per approvare, comunque li si presentino, i decreti-legge del governo.

Questa riforma della Costituzione che il governo ci propone si lega inoltre indissolubilmente a una nuova legge elettorale che è poi la brutta copia del famigerato Porcellum di Calderoli. A elezioni avvenute – si dice a gloria e a giustificazione di questa nuova legge – si deve sapere subito chi governerà e chi farà l’opposizione. Ancora una volta non sono d’accordo: la nostra è una Repubblica parlamentare e quel “parlamentare” qualcosa vorrà pur dire. E vuol dire che le elezioni servono a determinare la rappresentanza parlamentare, mentre i governi si fanno in parlamento. L’idea di un’elezione che determina immediatamente il capo del governo e la sua maggioranza è una reminiscenza mussoliniana e non a caso non si addice all’attuale Costituzione. E la Repubblica parlamentare vuole anche che sia bandita ogni forma di “premio di maggioranza”. D’altronde, che il premio di maggioranza non giovi alla democrazia lo aveva già stigmatizzato Calamandrei quando, commentando il tentativo di legge maggioritaria che la Democrazia cristiana provò a realizzare nel 1953 – e che Pajetta chiamò con una geniale immagine «legge truffa» –, scrisse su questa rivista nel giugno del 1953: «se il premio di maggioranza fosse stato raggiunto, la democrazia si sarebbe definitivamente trasformata in oligarchia […]. E i cittadini di nuovo ridiventati sudditi; e rafforzata quella distinzione tra dominatori e dominati, quella fatale scissione e ostilità tra governo e popolo, che ha costituito per secoli la tara italiana e che la Resistenza aveva creduto di poter finalmente superare».

Ma, si obietta oggi, il premio di maggioranza serve a determinare la governabilità, che in Italia è sempre stata labile. Niente di più falso. In Italia la governabilità è sempre stata fin troppo forte. Senza portare a esempio il fascismo che, in quanto dittatura, governò ininterrottamente e senza opposizione per vent’anni, basterebbe soffermarsi sulla Democrazia cristiana che nei cinquant’anni successivi alla Seconda guerra mondiale – gli anni che oggi sono detti della Prima repubblica – determinò le sorti del paese. Chi si ferma alla constatazione che questi governi democristiani in media non durarono più di un anno, e con questo giustifica la labile governabilità, non vede oltre il proprio naso: i governi si alternavano secondo il potere momentaneo delle diverse correnti del partito, ma sempre governi democristiani erano e attuavano una univoca linea di partito. Dopo la Democrazia cristiana, vent’anni di berlusconismo – variamente interpretato dalla destra e dalla sinistra – hanno ulteriormente affermato quanto nel nostro paese la governabilità sia fin troppo stabile. Dunque il premio di maggioranza non si raccorda con la governabilità ma con qualcosa di più subdolo che tenta di annullare la funzione – fondamentale per una democrazia – delle opposizioni.

D’altronde che questa riforma cerchi di concentrare il potere sul presidente del Consiglio – che è anche il segretario del partito di maggioranza – lo si evince anche dal ridimensionamento del presidente della Repubblica che non “nominerà” più il presidente del Consiglio – secondo l’attuale art. 92 della Costituzione –, ma solamente “ratificherà” la scelta che al ballottaggio avrà compiuto un ridottissimo “popolo sovrano”. E per di più non si può dimenticare che questo presidente della Repubblica difficilmente rappresenterà l’unità nazionale (attuale art. 87) dal momento che dal settimo scrutinio potrà essere eletto con la maggioranza di 3/5 dei votanti.

E allora fine del bicameralismo perfetto, riforma elettorale centrata sul premio di maggioranza, dimagrimento delle competenze del presidente della Repubblica e altre cose ancora, che i nostri amici vorranno mettere in luce, sono la spia di una mutazione genetica della politica che si vuol imporre al paese. E tutto fa prevedere che questa nuova costituzione porterà una nuova forma di oligarchia in cui ancora una volta il popolo sarà chiamato a pagare errori non suoi.

Dunque, al referendum bisogna votare no, ma questo non comporta che si finisca per tenersi l’esistente? Direi proprio di no. Occorre battersi perché la Costituzione del ’48 sia finalmente attuata. Purtroppo dopo le elezioni del 18 aprile 1948 la Democrazia cristiana comprese che se avesse attuato la Carta avrebbe dato di balta a quell’organizzazione statuale su cui la borghesia uscita dalla Seconda guerra mondiale stava costruendo il suo potere. Questo il paradosso della politica italiana: aver realizzato una Carta costituzionale che il partito di maggioranza – intriso di autoritarismo, clericalismo, bigottismo, neofascismo – non poteva usare, pena la sua disfatta. Ed è questo un paradosso che rimarrà nel tempo perché la borghesia al potere ha preso sempre più coscienza che l’attuazione della Costituzione comporterebbe la realizzazione di quell’insieme di valori della nostra storia che presero corpo nella Resistenza, ma che furono velocemente dimenticati, e che – se si vuol dire come stanno le cose – ebbero, e hanno, un sapore socialista. Scrive Calamandrei nel giugno 1950: «abbiamo avuto per venti anni, sotto il regime fascista, l’esperimento di un ordinamento giuridico a doppio fondo, nel quale, dietro lo scenario venerando dello statuto albertino, un regime di assolutismo dittatoriale faceva tranquillamente i suoi affari. Non vorremmo che anche la Repubblica diventasse un apparato di illusionismo costituzionale dello stesso stampo». Illusionismo costituzionale, che è poi il tradimento degli ideali più profondi della Resistenza. E ancora Calamandrei: «La rinuncia alla guerra, il diritto al lavoro, il diritto ad una esistenza libera e dignitosa: i deputati della Costituente votarono quegli articoli credendo di esserne gli artefici; in realtà dietro di loro, a dar loro l’ispirazione, c’erano i caduti, c’era la Resistenza». E ai giovani milanesi il 26 gennaio 1955, in un famoso discorso sulla Costituzione tenuto nel Salone degli affreschi della Società umanitaria, diceva: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione». Ma Maria Elena Boschi queste cose le conosce?

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