1 Novembre 2007
pubblicato da Il Ponte

Rosso Baghdad

Numero 11 novembre 2007 Prezzo € 15.00

BaghdadMolti definiscono la guerra americana (o anglo-americana) contro l’Iraq di Saddam Hussein un errore. Anche al Congresso di Washington. Anche sui giornali che riflettono gli interessi dell’establishment. Paradossalmente, si protesta piú in alto che in basso da quando le sinistre europee, soprattutto se al governo, si trincerano dietro il realismo, le alleanze, gli impegni assunti in questa o quella sede per non vedere e non sentire e l’opinione pubblica ha cessato di essere quella «seconda potenza» che il «New York Times» indicò a suo tempo come solo contraltare all’egemonismo americano.

Non è difficile capire perché a quattro e piú anni dal passo fatale compiuto dal presidente Bush e dai suoi complici nel marzo 2003 si tenda a prendere le distanze da una guerra fallimentare. Troppe bugie. Il disprezzo per le forme ha impedito un’adesione piú vasta nel mondo. Blair e Berlusconi, o i molti dirigenti dell’Europa dell’Est alla ricerca di una vendetta “storica”, non potevano bastare a migliorare la performance di George W. nelle vesti dell’«uomo solo» allo sbaraglio: solo con l’idea fissa di sfruttare al massimo l’11 settembre, con gli spettri aleggianti in casa Bush e i calcoli fra avventuristi e lucrativi dei Cheney e dei Rumsfeld. La scissione fra gli Usa e una parte significativa dell’Europa indebolisce tutto l’Occidente, impegnato per suo conto in una sfida da cui dipende la salvaguardia del suo modello di vita (in pratica, anche se non tutti sono disposti ad ammetterlo, dei suoi privilegi). Ma anche troppe decisioni sbagliate. L’esercito iracheno non andava sciolto all’improvviso dopo la sconfitta sul campo. E cosí non aver preparato in tempo l’infrastruttura per gestire il dopo-Saddam, non aver pensato alla probabile insorgenza o resistenza di popolo o di fazioni che sarebbe scoppiata, ecc. Lo stesso Baath poteva essere recuperato, dopo l’inevitabile “epurazione”, affinché il vuoto di potere, specialmente a livello locale e intermedio, fosse almeno in parte compensato dalla presenza di un apparato collaudato e di un’infrastruttura con i collegamenti trasversali che sono necessari a qualsiasi governo. Soffiare sul fuoco degli antagonismi etnici, religiosi e clanici, sciiti e curdi contro sunniti, laici contro religiosi e religiosi contro laici, separatisti o regionalisti contro centralisti, non poteva portare a nulla di buono. L’argomento principale che viene invocato da piú parti contro il ritiro delle forze d’occupazione («dopo di noi il diluvio») è di fatto la piú bruciante condanna della guerra. Il rischio è invece che tutto si riduca a lamentare l’errore di non aver tenuto conto del consiglio del grande storico libanese Kamal Salibi: «Le grandi potenze non dovrebbero mai lasciarsi coinvolgere nella politica di piccole tribú».

Scritti di: Alberto Benzoni, Marco Calamai, Giampaolo Calchi Novati, Maurizio Cremasco, Teresa Filomena, Mirella Galletti, Elisa Giunchi, Marco Maestro, Anna Maria Medici, Mario Nordio, Valeria Poletti, Farian Sabahi, Simona Torretta.

1 Marzo 2003
pubblicato da Il Ponte

Guerre à gogo

Numero 3 marzo 2003 Prezzo € 16.00

Guerre«In quanto modello, l’Unione Sovietica è inammissibile […]. Detto ciò, se l’Unione Sovietica non esistesse, gli americani sarebbero i padroni del mondo. È meglio che ci sia questa rivalità, piuttosto che una potenza regnante, perché nella rivalità c’è almeno una qualche apertura, mentre con un’unica potenza dominante, per fare qualcosa di nuovo occorre aspettare il suo declino, il suo deperimento». Chi parla è Henri Lefebvre che nel dicembre 1983 rilasciava un’intervista al «Ponte». Ho riportato in apertura questo pensiero lefebvriano perché questo nostro “speciale” gira fondamentalmente intorno all’idea che gli americani sono, o tentano di essere, i padroni del mondo. E questa non è una nostra impressione. Si legga il documento che espone la cosiddetta dottrina Bush (The National Security Strategy oh the Ynited States) e che è stato il punto di riferimento di Antonio Gambino per il suo libro Perché non possiamo non dirci antiamericani: ogni dubbio sarà fugato. Che l’operazione riesca loro è altro discorso, e gli anni a venire daranno le dovute risposte. Oggi dobbiamo prendere atto di questo stato di cose e su di esso fondare le nostre analisi del presente e del futuro.

In quest’ottica la guerra all’Iraq di Saddam Hussein non è un evento particolare che tende a ristabilire un ordine preesistente, è un quid novi che propone un nuovo ordine, la pax americana. A dimostrazione di questa tesi, in questo numero abbiamo voluto preporre alla trattazione della guerra e del dopoguerra una serie corposa di articoli sulle mire statunitensi riguardo al nuovo ordine mondiale e che mostrano come Saddam Hussein sia stato solo il pretesto per innescare la miccia delle operazioni. Un po’ come il lupo e l’agnello di esopiana memoria. Con questo non vogliamo dire, ovviamente, che Saddam sia stato l’agnello, ma che qualunque cosa avesse fatto, non sarebbe bastata a evitare l’invasione anglo-americana. Le fantomatiche armi batteriologiche, gli altrettanto fantomatici aiuti ai terroristi di al Qaeda, la dittatura con la conseguente oppressione e repressione del popolo curdo e sciita, erano solo il casus belli e poco importa se agli occhi della diplomazia internazionale sono sempre apparsi poco credibili o addirittura inconsistenti (vedi le recenti dichiarazioni di Blix): ciò che conta è far capire a tutti chi comanda nel mondo: o si è con gli americani o contro. Da qui il problema Onu, il problema Nato, il problema Francia-Germania-Belgio o, come dicono alla Casa Bianca, il problema “vecchia” Europa.

Continua a leggere →

1 Luglio 2002
pubblicato da Il Ponte

Una terra chiamata Palestina

Numero 7 luglio 2002 Prezzo € 10.00

PalestinaLa questione palestinese (o israeliana) si è sempre dipanata fra due ipotesi: l’integrazione o la spartizione. È dai tempi delle prime colonizzazioni sioniste, e poi dall’amministrazione inglese nel periodo fra le due guerre, che ebrei (israeliani) e arabi (palestinesi) si sono attratti o respinti a vicenda, con uno sfoggio ininterrotto di violenza, ma nello stesso tempo hanno formulato o immaginato progetti unitari. Che cos’è il sogno dell’ Eretz Israel, il Grande Israele, se non il tentativo di realizzare pienamente il sionismo, unificando il territorio della Palestina (se del caso espellendo o relegando i palestinesi in un ruolo minoritario o infimo)? Anche la meta ultima della Palestina democratica e secolarizzata, tratteggiata dalla vecchia Carta dell’Olp, deprecata oltre i suoi pur pesanti limiti concettuali (termini come «laico» o «democratico» vi erano definiti malamente e il richiamo alla nazione o patria araba quale alveo naturale, in assenza di una chiara enunciazione dell’esistenza di una “nazione ebraica”, contrastava con il concetto di Stato «binazionale»), inseguiva, quantunque confusamente, lo schema integrativo.

Partendo da un’ostilità preconcetta e dall’inclusione in sfere di sovranità, ambiti culturali e mercati differenti, con frontiere e tutto il resto, i due popoli, di guerra in guerra, si sono sempre piú integrati, sul territorio (da cui sono scomparsi i confini, sostituiti da “linee verdi” labili e spezzettate) e nell’economia, e persino nei comportamenti, mentre la politica si è andata adattando piuttosto all’ipotesi della divisione. Senza però che i vantaggi e i rischi della spartizione abbiano fatto dimenticare le poste speculari dell’integrazione, e viceversa. A questi problemi, alle prospettive che si pongono, alle possibili soluzioni, questo numero, curato da Giampaolo Calchi Novati, cerca di dare una risposta.

Scritti di: Alberto Benzoni, Giampaolo Calchi Novati, Maria Antonia Di Casola, Pier Giovanni Donini, Joe Golan, Laura Guazzone, Nemer Hammad, Marco Maestro, Anna Maria Medici, Donald Moerdijk, Marcello Rossi.